Architetture di Domani. Scenari. Pubblicato su "Rassegna di Architettura e Urbanistica, n.82-83 "La condizione attuale dell'architettura in Italia", gennaio-agosto 1994 (pp.102-109). di Antonino Saggio



 
"Ma nei sentieri non si torna indietro | Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova | Perché lungo il perire dei tempi | L'alba è nuova, è nuova."
Sono versi del poeta sindacalista Rocco Scotellaro e sono incisi in una architettura a lui dedicata: un telaio spezzato, disegnato da un gruppo di progettisti milanesi, che incornicia la pianura dall'alto della rocca materana. Gianluigi Banfi, partigiano architetto morto in campo di concentramento e il poeta contadino tornano insieme alla mente quando al futuro del nostro lavoro in Italia vogliamo pensare.

Proiettare le proprie aspirazioni, credo, necessiti di un senso degli avvenimenti. ("Perché vuoi sapere tante cose?" domanda il vecchio rinsecchito dalle colpe. "Per cercare di ricavarne un senso" risponde il ventenne avvocato). Abbiamo bisogno, anche come architetti, di conoscenze da metabolizzare in capacità di orientamento: da questo "senso" provvisoriamente raccolto molte sono le riflessioni che illuminano la nuova alba. Ma una su tutte:
 

I. "Forti nelle differenze"
Ormai molti mesi fa ho fatto un viaggio al Sud con il compito di studiare le nuove architetture siciliane. Non conoscevo in realtà né quelle architetture né quella isola anche se vi avevo trascorso otto anni della mia infanzia e anche se mio figlio Raffaele porta il nome del nonno che questa terra ha vissuto intensamente. Le tante volte che vi ero andato ero sempre distaccato e sarcastico: vedevo le brutture architettoniche che pretendevano di essere eleganti e mi attanagliava lo sviluppo vergognoso dei centri costieri. Osservavo ironicamente le costruzioni in progress sui ferri di attesa (cfr. il ristorante de "Il ladro di bambini"). Riflettevo sul cemento armato e sulla scissione dell'atomo: anche il C.A. ha dato un'arma distruttiva perché, impoverito delle sue potenzialità, ridotto a metro cubo, ha vandalizzato e, come Coca-Cola e Canale 5, omologato verso il basso. Modernità a caro prezzo dunque.

Ero in una trappola pasoliniana, perché in architettura può non essere cosi. Vogliamo progresso e cultura, futuro e rammemorazione

Cominciando a visitare le poche, ma bellissime, architetture nuove siciliane, mi è parso a un certo punto di catturarne il segreto. La presenza ó forse sotterranea, forse solo sentita ó di un imprinting lontano. Un fare greco per pieni, per volumi puri che, agganciati al suolo irregolare, elevano masse frastagliate. Un canto al cielo, una luce che taglia ombre nette, ma anche un continuo procedere per sorprese, un salire e scendere, girare attorno e mai in asse. Ho scoperto allora la relazione con il paesaggio di queste architetture e di queste città. Il paesaggio vince sull'architettura, la comanda ma ne ha bisogno come un necessario controcanto. Messina, adagiata sulla stretta piana tra i Peloritani e il mare, Palermo, città "tutta porto" sotto il monte Pellegrino o Catania, osservata in ogni suo angolo dal gigantesco Etna esaltano il paesaggio come la cattedrale federiciana del colore della rocca rossa di Cefalù, il teatro appoggiato sul declivio e che si apre sul golfo oppure i templi che mandandosi l'un l'altro silenziosi messaggi, ci fanno guardare il cielo e il mare.

Ho capito d'un colpo la Villa di Malaparte a Capri, ma anche le nuove opere a Cefalù, a Poggioreale, a Sciacca, a Gibellina nuova. Era possibile lavorare attorno a questo fare scultoreo, a frammenti asimmetrici e angolati, a camminamenti interrotti, a masse tutte colorate contro il cielo, a una combinazione mai mimetica con il paesaggio che rammemori l'infanzia greca ma con la cifra di uomini e architetti di oggi. Attraverso l'accettazione quindi di contaminazioni tra la storia personale, quella universale e internazionale dell'architettura e quella della terra.

Camminando in queste opere nuove ho capito il valore, anche in architettura, di essere Contro, di perseguire una ragione diversa dalla norma. Combattere le aberrazioni del territorio, l'uso distratto della tecnologia, i facili compromessi speculativi o le consuetudini clientelari. Un essere Contro vero ó quello di Scotellaro per intenderci o di Livatino, non quello della contestazione di massa degli anni Sessanta ó lontano da élitarismi intelletualistici perché necessario; per fare e convincere anche se da posizioni di minoranza.

Riflettevo per contrasto alla differenza tra questo in-printing greco e scultoreo e il Nord. La Padania, soprattutto, mi appariva un contesto geografico e storico che dai tempi del cardo e decumano dell'urbanesimo militare romano non poteva più sfuggire all'idea di città: sino ad oggi l'architettura al Nord sembra essere prefigurazione di un'idea urbana come se la memoria della fondazione ex novo non possa che essere ogni volta riproposta, ripensata anche nei più piccoli manufatti. L'architettura-città tende a dominare la natura, anche nei contesti dove essa è ricca: la cupola della Salute vince sul Canal Grande, la griglia romana proiettata sul fronte della Casa del fascio domina le vette di Brunate.

Questa impostazione "tutta artificiale", può anche cadere in tentazioni accademiche e stilistiche (e, in fondo, del tutto ovvio che qui il seme metafisico sia cresciuto e si sia sviluppato sino a determinare la "Tendenza"). Eppure si può coltivare questa aspirazione di artificialità, quel "substrato classico" di cui nebulosamente parlavano i ventenni del Gruppo 7, anche con sensibilità, gusto, vera poesia: con un senso di straniamento onirico come nella Casa di Figini e Pollini alla V Triennale, nel Salone della Vittoria, nel Tubercolosario di Alessandria, nella Villa Bianca, nel tesoro di San Lorenzo di Albini. La Casa del fascio di Como è il simbolo di questa aspirazione, ma esistono opere che sotterraneamente vivono la stessa presenza di geometria, ordine, artificialità per combinarsi felicemente con la luce, con l'aria, con le funzioni, con la vita stessa. D'altronde forse è proprio l'Asilo Sant'Elia una delle costruzioni più importanti della nostra architettura. Un quadrato assiale e romano che introiettando lo spazio aperto ne deforma partiti e spazi; un'opera a un tempo funzionalissima, dinamica, nuova eppure con velature ed echi antichi.

Ma per chi operi nel territorio di Roma, credo, qualsiasi sfida di architettura deve nascere da una consapevolezza della sua ancora diversa specificità: da una lettura profonda, da una reale simpatia con la sua lezione. Come non pensare a Ludovico Quaroni e al suo indimenticabile e appassionato ritratto-progetto?. L'in-printing a Roma non è né scultoreo e greco, né militare e "romano". Caso mai è etrusco: quello delle necropoli scavate nella roccia, dell'organico combinarsi tra natura e architettura. Ma Roma è anche città storica per eccellenza (come Parigi è città di cultura, Los Angeles di velocità, New York di cosmpolitismo). A Roma storia vuol dire stratificazione, accumulo, riuso sulle tracce della civilizzazione precedente, palinsesto, compresenza di natura e architettura di oggi e di ieri. Quest'idea a volte è stato tradita nei secoli, ma altre volte è stata capita ripresa, coltivata. Piranesi è il simbolo di tale consapevolezza, ma anche alcuni progetti di oggi, sino a quella grande idea di Piccinato del Parco archeologico dell'Appia: un misto di ruderi, natura, paesaggio, architettura che fa penetrare la linfa del territorio fino al cuore stesso della città.

Per questo penso ó come Giuseppe Pagano, che per primo mi ha rivelato la dinamicità delle costruzioni greche ó che l'Eur celebrato nelle superficiali visite dei nostri ospiti americani, insieme magari alla sistemazione dell'Augusteo o alla via della Conciliazione, sono madornali errori. È una Roma da operetta, da falsa parata fascista e monumentale che nulla, veramente nulla, ha con la vocazione profonda di questa città.

Credo, che una strada vitale per l'architettura italiana ó diversamente declinata nelle varie situazioni storiche culturali e geografiche ma soprattutto necessaria a Roma ó possa nascere da una composizione asimmetrica che proceda analiticamente per frammenti e non per quadri. Che inglobi e faccia tesoro della natura e dell'ondulato paesaggio per fare una architettura anche solida, pesante, di materiali lapidei che richiamino le nostre pietre e le nostre rocce ma che possa inglobare inserti trasparenti, leggeri, modernisti. Una architettura che non sia né vegetalmente mimetica né all'opposto rigidamente artificiale ma che evochi una presenza forte. E che rifugga perciò da ingegnerie high-tech o da chincaglierie neo-decorative per sancire dell'edificare l'aspetto fondamentale: la serietà dell'impegno, il valore morale della costruzione e di tutti quelli che vi sono coinvolti.

"Forti nelle differenze", diventa allora una direzione da perseguire, una cornice in cui muoversi, una formula da ricordare. È, allo stesso tempo, un modo per cercare, leggere, rilanciare le nostre diverse culture, una maniera per filtrare, con un misto di apertura e di freddezza, le vicende che dagli altri paesi ci arrivano, una consapevolezza della necessità di essere spesso in minoranza, di essere Contro. Ma non basta perché di altre luci ancora abbiamo bisogno.

II. "Il Vuotometrico"
Descrivendo le sfide possibili dell'architettura di domani ho volontariamente omesso la necessità, che credo fondamentale, di inglobare lo spazio interno e quello esterno in un fluido dinamico per conformare lo spazio pubblico con un gioco concertato delle parti. Parlo di questo concetto usando questo strano neologismo ó Vuotometrico ó che per me è talmente importante che necessita di una sia pur breve trattazione a sé.

Un grande architetto olandese, una volta disse: "Non c'è giorno che non penso a Le Corbusier". Credo che non sia un'eccezione. Studiando proprio l'architettura greca, Le Corbusier ha formulato la frase "volumi puri sotto la luce". Sappiamo benissimo cosa intendeva dire. Geometrie solide, all'inizio sospese sul terreno, più tardi ancorate al suolo, ma, appunto, "pure" nel gioco dei volumi per creare messaggi asimmetrici, dinamici ma anche arcaici. Forse meno immediatamente evidente è che la medesima idea dei volumi puri sotto la luce è alla base della sua concezione di città, (aggiungendovi uno spirito cartesiano e geometrico e il peso tecnico e scientifico delle nuove scoperte urbanistiche. LC ha formulato questa idea nella Carta di Atene).

I volumi puri sotto la luce applicati alla costruzione della città hanno creato una rivoluzione di portata storica immensa perché ha determinato lo scollamento tra edifici e spazio pubblico. Lo spazio pubblico diventa un vassoio piano, possibilmente piantumato, isotropo, indefinito su cui poggiare architetture-volume. Gli edifici, liberati dalla strada corridoio, dalle piazze, dai vicoli, diventano blocchi perfettamente funzionali nelle loro dimensioni, esposti alla luce secondo le leggi più opportune, studiati nei dettagli di organizzazione distributiva, nel disegno delle singole cellule. La città, prima plasmata da tipi edilizi nati anche in ragione della conformazione morfologica, diventa governata dallo standard, dallo zoning, dai rapporti astratti tra i volumi.

È sotto gli occhi come questa concezione, impoverita concettualmente, drasticamente decurtata tecnicamente (viadotti non realizzati, tetti giardini inesistenti eccetera), gestita senza cura, banalizzata normativamente, ha influenzato la costruzione delle zone periferiche di tutto il mondo che ormai, "non luoghi" come i distributori di benzina, si assomigliano tutte.

Ma lo spazio "tra" i volumi? Lo spazio per la vita degli abitanti, per il dipanarsi delle attività e dell'immagine sociale? Soprattutto in Italia il planovolumetrico (che già nel nome ricorda una concezione di volumi misurati e quantizzati) non norma tali spazi in alcun modo, né dà solamente la quantità pro capite come risultante appunto tra i volumi separati. Il tutto diventa ancora più caotico perché il progettista che disegna il planovolumetrico, d'abitudine, non progetta i singoli edifici. Chi va abitare i complessi si cala in queste contraddizioni pagandole sulla propria pelle, sulla propria infelicità quotidiana. Mentre la città e l'architettura potrebbero garantire parte grande della qualità dell'esistenza.

2.1 Tessuto
Per un certo numero di anni sono stato convintissimo che la risposta a questo stato di cose, e quindi il futuro, era contenuto nel concetto di Tessuto.

Il terreno si doveva trasformare da vassoio su cui poggiare volumi, in un insieme da progettare attentamente come un insieme compatto in cui interagiscono spazi, strade, edifici, sistemi verdi e lastricati per contrapporre alla discontinuità della prima concezione modernista la continuità tra uno spazio e l'altro, tra una configurazione e la successiva. I progetti che studiavo usavano lo strumento a un tempo progettuale e sociologico della Territorialità ed erano governati da una griglia omogenea che investiva globalmente tutta l'area; ma la griglia si svuotava, si apriva e si chiudeva creava un susseguirsi di relazioni tra i vari ambiti che della città antica, dei piccoli camminamenti, delle improvvise sorprese, richiamava atmosfere e sequenze. Era una concezione che si poggiava integralmente sulle spalle delle scoperte tecniche del Funzionalismo, ma le portava avanti: indagava nuove tecniche attente al rapporto tra regole fisse e variazioni, scopriva nuovi sistemi distributivi, nuovi concetti insediativi per cercare di ottenere le nuove qualità senza tradire un metodo di lavoro, una attitudine "scientifica" (sperimentabile, trasmissibile).

2.2. Scena urbana
Era un modo, questo che fa capo al concetto di tessuto, per rimettere al centro il problema dello spazio "tra le cose" e con esso lo spazio della vita. Ma accanto a questo modo, per così dire "tecnico", e solo molto più di recente, ne ho scoperto un altro: in qualche modo più evanescente, più difficile, più pericoloso, ma altrettanto importante. L'ho chiamato, forse copiando l'espressione da quell'architetto romano che per primo me ne dimostrò la vitalità, "Scena urbana".

I volumi puri sotto la luce avevano fatto piazza pulita di una tradizione di costruzione della città che aveva origine nella Roma barocca e nel disegno organico, sinuoso e affascinante dei suoi spazi pubblici: da Fontana di Trevi a Trinità dei monti. L'impostazione di matrice barocca aveva in parte influenzato la costruzione di alcune città europee nell'Ottocento, ma si era trasformata all'inizio di questo secolo, soprattutto in Italia, in una vacua e posticcia scenografia. Ogni tanto, dalle cartoline d'epoca o da frammenti di città, ne ritornano gli esempi stucchevoli. Quasi gli stessi che si ritrovano sparsi un po' in tutto il mondo settanta anni dopo come Piazze d'Italia o nuove Parigi.

Ma enzimi malati possono far lievitare un pane fragrante: in queste pur stucchevoli parate vi è contenuta un'idea. Lo spazio urbano è un vuoto che non può essere trattato come meccanicistico risultato di volumi astrattamente funzionali. È un vuoto, naturalmente, da progettare non con gli stilemi del kitsch americano-franco-italiano, né con la magniloquente e statica unitarietà di quelle proposte, ma con frammenti, con pezzi sbilanciati, dinamici, carichi di tensioni e non di rassicuranti certezze. Preesistenze, pezzi di natura, nuovi volumi, a volte anche brani archeologici possono combinarsi attorno allo spazio occupato dagli abitanti. Al vassoio orizzontale si può sostituire un insieme di piani inclinati che permetta la stratificazione in altezza: sotto la quota zero, scavando, e poi sopra: terrazze, tetti abitati, giardini che si rincorrono.

Nei progetti che hanno questa consapevolezza prende corpo un amalgama di straordinaria vitalità: l'architettura e il linguaggio moderno sono portati avanti ma al contempo una nuova consapevolezza del valore civico dello spazio, della scena dove le attività si svolgono emerge. Le prospettive deformate, i piani inclinati, la sagomature dei cavi, l'organico rapporto con la natura o con l'acqua si sposano alla leggerezza, alla trasparenza, ma anche alla fisicità di nuove forme, di nuovi dinamici fondali. La logica di creazione dei cavi diventa "sommatoria", analitica: recupera la lezione dell'organico, del piano senza angolo, del frammento e abbandona ogni insieme sintetico, statico, unitario degli accademismi di tutti i tipi e di tutti i tempi. L'architettura è fatta di concerto con lo spazio che conforma: la vita interna si travasa con naturalezza in quella esterna.

2.3 Vita e arte
Sembrerebbe bastare per avere una strada da seguire: i grandissimi, naturalmente, possono fare di più.

Si pensi al Byker Wall a Newcaste. Un grande muro ondulato in pianta e alzato che detta la misura del progetto con lo spazio della città e della natura e che al contempo racchiude una serie di edifici bassi e continui: tessuto e scena, griglia e monumento urbano, serialità ed eccezione, verde e vita, ricerca della felicità di chi abita. Un progetto che mai si sarebbe concepito senza idee come queste.

Ma se guardiamo al lavoro di quello che forse è l'architetto al mondo più interessante di oggi si scoprirà che non solo i cavi sono il centro di ogni composizione, non solo risultano conformati da fantastici pezzi scultorei, ma dentro lo spazio che essi creamo emerge anche un inaspettato e modernissimo valore figurativo: l'aereo appeso alla parete del museo, il binocolo dell'agenzia di pubblicità a Los Angeles o il grande pesce sul lungo mare di Barcellona. È un nuovo geniale ibrido che ci fa d'improvviso ricordare che nei grandi cavi barocchi un posto preminente era destinato all'arte pura: alla fontana di Nicola Salvi a Trevi, alla Barcaccia di Pietro Bernini a Piazza di Spagna, alla scultura dei Fiumi del figlio Gianlorenzo all'incrocio delle due prospettive della piazza Navona (non nel centro geometrico dell'ovale!).

Già il Team x, con le parole di Alison Smithson, lo sosteneva: "l'architettura è una forza attiva della vita stessa. Non è più sufficiente "fare degli edifici", dobbiamo crearli in modo tale che diano significato allo spazio intorno ad essi nel contesto dell'intera comunità". Tessuto e scena urbana forniscono strumenti di progetto per lo spazio tra le cose, lo spazio per la vita. Forse insieme a una nuova consapevolezza dei progettisti vi è anche bisogno di un nuovo indirizzo normativo: un vuotometrico, appunto, che renda possibile lo sviluppo dello spazio, che ne strutturi le potenzialità, che dia strumenti per operare sui nuovi vuoti che la stessa città consolidata sempre più offre: i tanti nodi irrisolti di centri grandi e piccoli, le parti abbandonate di scali ferroviari, le industrie dismesse, gli scali portuali inutilizzati e anche qualche squarcio che dovremo per forza di cosa ricavare nelle nostre periferia, demolendo.

III. "Transfunzionalismo"
Il suffisso "trans" è caratterizzante di questi anni e certo ci accompagnerà ancora. Transavanguardia, transnazionale, transpartitico tutto sembra voler oltrepassare i confini, mescolare idee, concezioni, stati.

Un ragionamento un poco più ampio su queste parole ci può aiutare a capire meglio. Pensiamo alla sicurezza degli anni tra le due guerre con gli "ismi" delle certezze ideologiche di Socialismo, Comunismo, Fascismo o quelle estetiche di Neoplasticismo, Dadaismo, Surrealismo, Razionalismo. Si sapeva quello che si voleva essere.

Il primo dopoguerra invece è quello dell'"anti". Antifascismo, Anticomunismo, Anticlericalismo. Si conosceva il proprio sistema di valori per antitesi. Grandissimi uomini si sono formati con questa cultura soprattutto quando era stata forgiata nella lotta fisica e intellettuale alla barbarie, alla guerra, allo sterminio. Hanno costruito su quella esperienza tutto il proprio operare, il futuro del loro agire sino ad oggi.

Gli anni Sessanta e Settanta sono stati invece quelli del "contro". Contro l'establishment, contro il sistema. È la generazione della contestazione di massa e anche le riviste di cultura non potevano non chiamarsi "Controspazio" o "Contropiano". A questa generazione (che si evolveva parallelamente a quella minoritaria, introversa e autocritica che fu chiamata "dell'incertezza") si può anche guardare con sospetto quando a quella ribellione è succeduta un'altrettanto comoda integrazione: "un aver fatto la rivoluzione per sé" con una buona di cinismo successivo.

Gli anni Ottanta, naturalmente, sono quelli del "post". Alvin Toffler proprio nel 1980 pubblica The Third Wave, un saggio che teorizza il superamento della civiltà industriale per una terza Ondata di respiro epocale basata sul controllo e la comunicazione delle conoscenze. Tutto viene superato, diventa appunto Post-industriale o Post-moderno.

Ed eccoci ai nostri anni e alla consapevolezza del futuro. Dobbiamo avere la forza di capire fino in fondo ma anche di oltrepassare, di combinare le nostre idee con quelle diverse anche se fanno parte di altri ragionamenti di altri modi di operare.

Si guardi alle sorelle. Alla letteratura per esempio. Il nome della Rosa, o Il cliente non sono lavori che attraversano generi diversi (il romanzo, il giallo, il saggio, gli atti giudiziari)? E se si guarda al cinema, alla musica a quella che una volta si chiamava pittura o scultura non è forse in atto qualcosa di simile?.

Possiamo usare il calcolatore, che tutti ormai abbiamo sui nostri tavoli, per cercare lo spazio, l'arte, nuove logiche di pensiero per guidare il progetto e non per calcolare le traiettorie delle cannonate per cui era nato. Possiamo usare la storia, che ascetiche vestali vogliono solo per i loro microscopi, per parlare di architettura ma forse anche della vita. Possiamo usare la cultura "a mosaico" così vincente oggi senza scordare la possibiltà di comporre nuovi, più complessi e ricchi affreschi. Possiamo usare anche architetti o pittori "sbagliati" (che generazioni precedenti alla nostra, quella degli ismi o degli anti giustamente cancellavano) per aiutarci a capire un dettaglio, una piccola cosa, darci a volte l'enzima che ci serve in quel momento.

Sulle parole bisogna intendersi. Se architettura Transfunzionale è sinonimo di apertura problematica, di superamento di rigidi steccati culturali, personali e ideologici per cercare necessarie strade nuove allora, credo, sia una formula promettente. Non siamo d'accordo forse che la pura tradizione modernista non è sufficiente in aree quali la creazione dello spazio pubblico, la possibilità di risolvere il dilemma tra ripetitività e variazioni, tra tessuto e spazi, tra scena urbana e paesaggio? Ma anche che senza quella attitudine, senza quello studio scientifico e quelle conquiste nulla si sarebbe poi potuto realizzare e quindi giornalmente vi dobbiamo tornare?

Una delle questioni fondamentali per orientare il futuro, è: "Come Possiamo Articolare la Vita nelle Nostre Costruzioni?" (Dove il Come rivela l'esigenza di formalizzare conoscenze trasmissibili e un metodo di lavoro. Articolare sta per la ricerca di spazi dinamici e fluidi. Nostro vuol dire apertura problematica a quanti dalla comunità ai clienti, alla città sono coinvolti nel processo. Costruzioni significa considerare il progetto come un tutto che investe simultaneamente l'edificio comunemente inteso e le aree libere, "costruibili" anch'esse con l'acqua, la vegetazione, le pavimentazioni, gli arredi, le strutture leggere). La parola decisiva è però Vita. Questo vuol dire, in fondo, Transfunzionalismo: abbracciare della vita tutti gli aspetti, da quelli di quantità, standard, norma, ergonomia della prima stagione modernista "oggettiva", a quelli tridimensionali percettivi e tattili della fase organica, a quelli di territorialità, controllo, comunità densità della psicologia dell'abitare. Senza dimenticare il dato più difficile e più importante. L'arte. Che della vita è la forma più alta e la sola unicamente umana. Transfunzionalismo allora: oltre il funzionalismo, attraverso il molteplice della vita per cercare risposte ogni volta diverse.

Rivendichiamo così al nostro lavoro la possibilità di attraversare, esplorare, cercare risposte con libertà perché abbiamo al contempo delle idee fondamentali, dei sentieri necessari da percorrere. Di alcuni abbiamo parlato, manca il più importante.

IV. "Crisi come valore"
In vent'anni, ho avuto poche volte la fortuna di avere un dialogo diretto con Bruno Zevi. Ma tutte le volte che mi è capitato è stato decisivo; sorgente di molte ore di ripensamenti, indirizzo alle mie decisioni, al mio capire, al mio futuro. L'ultima volta è stata fondamentale. Guardandomi bene in faccia mi chiese "Saggio, cosa è per te la modernità? Sono cinquant'anni che ci lavoro ... " Balbettai qualcosa come "Beh, certo è un concetto atemporale, non si riferisce a un epoca ...." Era la risposta di uno scolaro, forse di un lettore diligente ma non era "la bomba". "Saggio, la modernità è quella che fa della crisi un valore".

Fu il cappuccino più importante della mia vita. Caspita, pensai, questo vale E=mc2 e io ora lo so. Lo aveva scritto e allo stesso "nascosto" in un inciso del suo ultimo libro (nessuno tra le persone che stimo e che usai come test ne aveva colto l'importanza). La modernità è quella che fa della crisi un valore, crea una morale contraddittoria, suscita un'estetica di rottura.

Avevo già capito che la critica è positiva solo se nega: combatte consuetudini, norme e regole per affermare il valore originale della ricerca artistica. Avevo capito che il progetto di architettura, di per sé prosa compromissoria tra funzione, costruzione e bellezza, si doveva spingere oltre. La funzione diventare tensione verso spazi umani e organici, la costruzione segnare l'audacia della conquista dinamica dello spazio, la bellezza essere annullata nel ricominciamento del Grado zero. Era chiaro pure che un'idea canonizzabile e imbalsamata di "bellezza", non esiste: è estranea a qualsiasi modernità. Ma non sapevo che il vero problema era fare della crisi un valore.

Le sfide che ci sono davanti (e sono tante: i problemi del terzo mondo su cui sto lavorando, l'immigrazione, le aree deturpate, il recupero della periferia, i rifiuti e l'ecologia, la ricerca della qualità di spazi e di nuove socialità tra le persone, le risposte a un mondo progredito rivolto sempre più alla comunicazione e di un mondo ancora naturale legato ai problemi materiali del corpo ó sanità, igiene, cibo, figli sono crisi che si devono trasformare in valori, in risorse del progetto per spingerci oltre darci la forza e la vitalità dell'agire.

Forti nelle differenze, Essere contro, Vuotometrico, Tessuto, Scena urbana, Tranfunzionalismo mi sono sembrati colori di un'alba il cui sole è contenuto in quell'idea. La strada del futuro è fare della crisi un valore.

Antonino Saggio
 
 

Per continuare

Per causa di forza maggiore, ho scritto senza l'ausilio dei consueti riscontri bibliografici. Ho eliminato pertanto le note a piè di pagina con questo "per continuare" che spero contenga, con accettabile precisione, tutte le informazioni necessarie all'approfondimento anche se in un formato non completo e certo inusuale. Un amico una volta mi spiegò che "gli architetti devono usare i problemi come risorse" chissà se la mancanza dell'usuale struttura non si possa risolvere, in fondo, in qualche vantaggio.

(Prologo)
La poesia di Scotellaro è citata da Manfredo Tafuri, Storia dell'architettura Italia 1944-1985, Einaudi, 1986 (uno dei pochissimi libri che ho qui disponibili) che la commenta a pagina 70 spiegando e dando riscontri sulla "devozione di Rogers" per il poeta. Mi ero già imbattuto nella poesia citata nel volume sui BBPR, (naturalmente i progettisti del monumento), stampato quest'anno da Zanichelli. Rileggere il libro di Tafuri in questa occasione è stato fonte di innumerevoli suggestioni presenti in modo sparso in questo scritto. Per esempio, il termine "rammemorazione", che MT usa in contrapposizione a "memoria" (e quindi al post-modernismo), è tutto suo. Ma forse la relazione più importante si trova quando MT parla dell'autobiografismo degli architetti italiani: "In ballo è sempre una ricerca di identità, un interrogativo circa la propria funzione, cui si risponde con scavi nella soggettività tesi a ritrovare il cordone ombelicale che lega l'infelice savant alla collettività" (p.76) Come si vede un vizio ricorrente. Anche se in quell' "infelice" non è detto ci si debba riconoscere.

Il brano citato tra parentesi è, più integralmente, il seguente:

"Mettimi alla prova. Sono stufo di segreti."

"Perché vuoi sapere tante cose?"

"Per cercare di ricavarne un senso."

"Sarà tempo perso."

"Questo dovrò deciderlo io, non ti pare?"

(John Grisham, L'appello, Milano 1994 p. 126). Se il senso per un avvocato o un giudice è la ricostruzione consequenziale di una serie di fatti, naturalmente "il senso" per un architetto (o intellettuale, o in fondo semplicemente persona) non può che essere Cultura. Cioè, appunto, la capacità di orientamento che dal passato si proietta al futuro.

(I. Forti nelle differenze)
Il ragionare per "parole chiave" deriva ormai da anni di rapporto con l'educazione ma anche dalla consuetudine di lavoro con giornalisti professionisti, soprattutto quelli di Costruire. Infatti alcuni brani di questo scritto appaiono già in articoli su questa rivista. Per esempio dell'architettura siciliana e in particolare del lavoro tra gli altri di Culotta e Leone, Francesco Venezia, Vittorio Gregotti, Roberto Collovà, Laurea Thermes e Franco Purini tratto in "Percorsi di architettura. La Qualità della Progettazione", fascicolo aggiunto "Speciale Sicilia" di Costruire, n.130, 3/ 94. Sul lavoro di Purini torno in "FP. Fra Futurismo e metafisica" Costruire, n.131, 4/94. Entrambi i testi contengono brevi notazioni bibliografiche per ulteriori approfondimenti.

Naturalmente le architetture citate senza riferimento all'autore si danno per note al lettore altamente specializzato di questa rivista. Comunque, la Casa del fascio e l'Asilo Sant'Elia sono di Giuseppe Terragni, la Villa Malaparte di Adalberto Libera, Il Salone della Vittoria di Edoardo Persico e Giancarlo Palanti, il Tubercolasario di Alessandria di Ignazio Gardella, il Museo del Tesoro di San Lorenzo di Franco Albini e si trovano in molte Storia dell'architettura oltre che nelle relative monografie. Naturalmente il fatto che il nome dell'architetto sia spesso omesso nel testo è un artificio per evitare la personalizzazione, che "il nome" sempre comporta, e per concentrare l'attenzione sull'idea che l'opera condensa nel contesto problematico in esame.

Il brano di Giuseppe Pagano cui si fa cenno si chiama, se ricordo bene, Partenone e Partenoidi e dovrebbe essere uscito nel 1940 o nel '41, forse su "Domus" o forse su "Costruzioni- Casabella", comunque si trova nella antologia di Laterza del 1976 a cura di Cesare De Seta. È un testo di grande suggestione. La tesi è evidente fin dal titolo: ma quale staticità, quale monumentalità retorica è mai presente nell'architettura greca?. L'Acropoli che Pagano visita con i suoi soldati è l'opposto: "modernissima" mi pare la chiami. E uno scritto rabbioso contro l'E42 e le false legittimazioni storiche di Piacentini e soci nazisti.

Il voler ragionare sulle specificità di Roma, naturalmente, nasconde la necessità di essere progettista e di collaborare e pensare insieme agli altri (Cfr Ludovico Quaroni, Una città eterna: quattro lezioni da 27 secoli, "Urbanistica", n. 27 1959 poi in volume L'immagine di Roma, Laterza.). È quanto avvenuto in una proposta recente per il Concorso del Borghetto Flaminio di cui al momento non immagino l'esito né l'efficacia della sintesi progettuale agli occhi degli altri.

L'essere Contro l'ho capito in una "Lettera al direttore" contenuta nel giornale di architettura di Culotta. Non sono in grado di ricordare né il nome dell'autore della lettera né il numero della rivista In Architettura che la conteneva. Ma sono grato a chi scrisse quella lettera con forza e mi è parso coraggio.

(II. Il Vuotometrico)
Questo brano è apparso in forma diversa e più estesa con il titolo "Se il vuoto si fa progetto" su Costruire n. 144 5/95 ma in realtà l'articolo stesso è il succo di un filone di studio che è iniziato sin dal 1979 con la tesi di laurea con Carlo Melograni. Su questo problema, con ampi riferimenti bibliografici, confronta "Sistemi distributivi e architettura residenziale", Ricerca e Progetto, n.14, 12/90.

Il concetto di Tessuto (e tutte le implicazioni tecniche, costruttive, economiche metodologiche, sociologiche) sono affrontate in diversi altri lavori soprattutto in Using Goals In Design, Pittsburgh 1988 difficilmente però consultabile in Italia. Per approfondimenti e riscontri bibliografici si possono confrontare Un architetto americano. Louis Sauer, Roma 1988, (ma anche L'Architettura n. 407, 9/89 e Edilizia Popolare, n. 215, 5/91) e "La cultura dell'abitare nel lavoro di Atelier 5", Edilizia Popolare, n. 228-229, 7/93. L'espressione "Penso a Le Corbusier ogni giorno" è di Herman Hertzberger ed è contenuta in un dialogo con gli architetti svizzeri di Atelier 5 riportato nel loro libro del 1985.

Riferendomi ai Volumi Puri sotto la luce di Le Corbusier uso la parola in corsivo "formulato" perché in alcuni piani, come quello di Algeri, e come tutti i geni, LC l'ha contraddetta clamorosamente aprendo la strada a una concezione territoriale dell'architettura che proprio in Italia, attraverso Giuseppe Samonà e Ludovico Quaroni, avrà esiti negli anni Sessanta e Settanta. Si tratta di una storia affrontata di recente da Francesco Tentori nel suo ultimo libro Imparare da Venezia, Roma 1994.

Il concetto di scena urbana, il fare frammentario, "analitico e sommatorio", l'importanza dei vuoti come strumento per plasmare lo spazio pubblico, l'ho scoperto studiando il lavoro di Alessandro Anselmi (cfr "AA. L'archeologo del futuro" Costruire, n.133,5/94) ma anche in alcune conversazioni con il progettista, che mi ha fatto un cenno rivelatore "agli oggetti d'arte".

Sulla collocazione non centrale della fontana dei Fiumi a Piazza Navona, ma all'incrocio tra i due canali visivi principali della piazza (quello che conduceva al Palazzo Farnese e quello che si apre su Palazzo madama) confronta Massimo Birindelli, L'occhio di Venere, Roma. I molteplici e accuratissimi studi di questo autore spesso rivelano che le simmetrie degli impianti antichi sono solo apparenti, perché le scelte di progetto nascono da motivazioni che mettono in gioco un enorme numero di fattori molti dei quali in rapporto con la configurazione urbana e le preesistenze.

Il Byker Wall è di Ralph Erskine. L'architetto canadese trapiantato a Los Angeles con cui chiudo il paragrafo è Frank O. Gehry. Su entrambi vi è una vastissima bibliografia.

(III Transfunzionalismo)
A una trasmissione letteraria a Radio 3 di qualche anno fa, un linguista (mai più individuato) spiegava l'importanza "culturale" dei suffissi Anti, Contro, Post. Da allora l'idea non mi ha più abbandonato e l'ho rivoltata cento volte, estesa e rimuginata. Il suffisso Trans, naturalmente, è comune oggi, vedi tra l'altro l'uso del termine Transavanguardia di Bonito Oliva. Non sono qui in grado di controllare se è stato già usato per l'architettura. In ogni caso è questo pensare diagonale, oltre gli steccati (accademici, disciplinari, di schieramenti preconcetti) che credo dovrebbe esserci naturale. Per esempio: mentre l'idea delle tre macroregioni (Padania, Etruria e Magna Grecia) elaborata dal prof. Miglio è, almeno per me, discutibilissima politicamente, altrettanto ovvio è che la medesima idea quando si combina a quella di "in-printing" (di tutt'altra derivazione e settore disciplinare ó psicologia evolutiva) diventa una terza cosa. Tra l'altro credo che l'in-printing in architettura dovrebbe avere sovrapposizioni di una certa intensità con quello che Purini chiama "paesaggio originario" (a sua volta una modifica del concetto di genius loci) e che mi pare abbia sviluppato tra l'altro nei suo Quaderno di Lotus. Sempre a Purini debbo l'osservazione sulla cattedrale di Cefalù e credo anche quella della griglia romana sul fronte della Casa del Fascio. Questa osservazione mi è stata raccontata a voce da Emilio Terragni dentro "l'incunabolo progettuale" dello zio. Osservazione geniale diceva l'architetto Terragni: usata da Purini per ribadire il suo concetto di area virtuale, qui quello dell'in-printing artificiale e romano del Nord. A riprova che le idee viaggiano, si incrociano, appunto, si trans-formano.

L'enzima "cioè un pezzo di farina andato a male" che fa lievitare a volte l'arte calza bene alla Metafisica. È possibile, per esempio, pensare al lavoro maturo di un pittore come Morandi senza riconoscere nelle sue nature morte o nei suoi paesaggi la presenza anche di questa componente, pur se sublimata divenuta completamente altro rispetto all'origine?

Infine la struttura per punti, l'importanza di queste e di molte altre parole chiave (alcune solo enunciate come quelle sul computer, sulle ascetiche vestali della storia, sulla cultura "a mosaico" contro quella "a-fresco" eccetera) sono state innumerevoli volte discusse con Luigi Prestinenza in una sorta di manifesto personale di cui, almeno per il termine "Co-residenza" esiste un esito bibliografico. Cfr. il numero unico "Nuove utenze Nuove Residenze" di Edilizia popolare n. 228-229, 7/93 che abbiamo insieme curato per sviluppare e dare strumenti di riflessione e di applicazione su tale problematica.

Paul Heyer in American Archiecture, New York 1993 scrive "Abbiamo bisogno di ristabilire le questioni fondamentali invece che vivere religiosamente le nostre effimere conclusioni". La domanda che ci poniamo nel paragrafo è derivata da questa frase.

(IV. Crisi Come valore)
Il libro di cui si parla è Bruno Zevi, Architettura della Modernità, Roma 1995 (cfr. Domus, maggio 1995 e sempre su Zevi Domus giugno 1994). Il brano di cui si discute è quello conclusivo. "L'ultimo valore consegnato al terzo millennio attiene al rapporto tra architettura moderna e democrazia liberal-socialista. Su questo terreno vibra la testimonianza di Terragni, Persico e Pagano, per i quali la modernità ó quella che fa della crisi un valore, una morale contraddittoria, dice Baudrillard, e suscita un'estetica di rottura ó era sinonimo di vita etica e civile. L'architettura è il termometro e la cartina di tornasole delle giustizia e della libertà radicate in un consorzio sociale. Decostruisce le istituzioni omogenee del potere, della censura, dello sfascio premeditato, e progetta scenari organici. Fuori di una modernità impegnata, sofferta e disturbata non c'è poesia architettonica".
 
 

Lo scritto deriva da una sollecitazione di Francesco Purini.
È apparso in forma estesa nel fascicolo La condizione attuale dell'architettura in Italia, di "Rassegna di Architettura e Urbanistica" n. 82-83, a cui si rimanda per gli approfondimenti bibliografici. Saggio@uniroma1.it è l'indirizzo elettronico per ulteriori richieste.
 


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