Dell'Imprinting
nell'architettura siciliana
di Antonino Saggio
Seminario sulla "Città Meridiana"
Scordia - Catania Settembre 1998


 

Ma nei sentieri non si torna indietro
Altre ali fuggiranno dalle paglie della cova
Perché lungo il perire dei tempi
L'alba è nuova, è nuova.

Sono versi del poeta sindacalista Rocco Scotellaro e sono incisi in una architettura a lui dedicata: un telaio spezzato, disegnato da un gruppo di progettisti milanesi, che incornicia la pianura dall'alto della rocca materana. Gianluigi Banfi, partigiano architetto morto in campo di concentramento e il poeta contadino tornano insieme alla mente quando al nostro lavoro in Italia vogliamo pensare particolarmente quando frontiera è "La città meridiana".

Proiettare le proprie aspirazioni, credo, necessiti di un senso degli avvenimenti. Abbiamo bisogno, anche come architetti, di conoscenze da metabolizzare in capacità di orientamento: da questo "senso" provvisoriamente raccolto molte sono le riflessioni che illuminano la nuova alba. Ma una su tutte:
 

I. "Forti nelle differenze"

Ormai molti mesi fa ho fatto un viaggio al Sud con il compito di studiare le nuove architetture siciliane. Non conoscevo in realtà né quelle architetture né quella isola anche se vi avevo trascorso otto anni della mia infanzia e anche se mio figlio Raffaele porta il nome del nonno che questa terra ha vissuto intensamente. Le tante volte che vi ero andato ero sempre distaccato e sarcastico: vedevo le brutture architettoniche che pretendevano di essere eleganti e mi attanagliava lo sviluppo vergognoso dei centri costieri. Osservavo ironicamente le costruzioni in progress sui ferri di attesa. Riflettevo sul cemento armato e sulla scissione dell'atomo: anche il C.A. ha dato un'arma distruttiva perché, impoverito delle sue potenzialità, ridotto a metro cubo, ha vandalizzato e, come Coca-Cola e Canale 5, omologato verso il basso. Modernità a caro prezzo dunque.

Ero in una trappola pasoliniana, perché in architettura può non essere cosi. Vogliamo progresso e cultura, futuro e rammemorazione.

La parola imprinting in questo contesto è per me diventata fondamentale.

Sappiamo di cosa si tratta: è la teoria che nelle fasi formative della vita si creano dei pattern, delle strutture ricorrenti che poi continuano in tutta l'evoluzione successiva. Il concetto non è solo delle scienze naturali, biologiche, psicologiche, comportamentali ma è stato applicato anche in altri settori. Marx stesso parlava della nostra infanzia greca.

Ora, ha un senso parlare di imprinting riferendosi all'architettura?. Esiste una differenze profonda, una radice diversa al Nord al Centro e al Sud d'Italia?.

...

Cominciando a visitare le poche, ma bellissime, architetture nuove siciliane, mi è parso a un certo punto di catturarne il segreto. La presenza - forse sotterranea, forse solo sentita - appunto di un imprinting lontano.
 

Un fare greco per pieni, per volumi puri che, agganciati al suolo irregolare, elevano masse frastagliate. Un canto al cielo, una luce che taglia ombre nette, ma anche un continuo procedere per sorprese, un salire e scendere, girare attorno e mai in asse. Ho scoperto allora la relazione con il paesaggio di queste architetture e di queste città. Il paesaggio vince sull'architettura, la comanda ma ne ha bisogno come un necessario controcanto. Messina, adagiata sulla stretta piana tra i Peloritani e il mare, Palermo, città "tutta porto" sotto il monte Pellegrino o Catania, osservata in ogni suo angolo dal gigantesco Etna esaltano il paesaggio come la cattedrale federiciana del colore della rocca rossa di Cefalù, il teatro appoggiato sul declivio e che si apre sul golfo oppure i templi che mandandosi l'un l'altro silenziosi messaggi, ci fanno guardare il cielo e il mare.

Ho capito d'un colpo la Villa di Malaparte a Capri, ma anche le nuove opere a Cefalù, a Menfi, a Gibellina nuova, a Catania. Era possibile lavorare attorno a questo fare scultoreo, a frammenti asimmetrici e angolati, a camminamenti interrotti, a masse tutte colorate contro il cielo, a una combinazione mai mimetica con il paesaggio che rammemori l'infanzia greca ma con la cifra di uomini e architetti di oggi. Attraverso l'accettazione quindi di contaminazioni tra la storia personale, quella universale e internazionale dell'architettura e quella della terra.

Camminando in queste opere nuove ho capito il valore, anche in architettura, di essere Contro, di perseguire una ragione diversa dalla norma. Combattere le aberrazioni del territorio, l'uso distratto della tecnologia, i facili compromessi speculativi o le consuetudini clientelari. Un essere Contro vero - quello di Scotellaro o di Livatino - lontano da élitarismi intelletualistici perché necessario; per fare e convincere anche se da posizioni di minoranza.

Riflettevo per contrasto alla differenza tra questo imprinting greco e scultoreo e il Nord. La Padania, soprattutto, mi appariva un contesto geografico e storico che dai tempi del cardo e decumano dell'urbanesimo militare romano non poteva più sfuggire all'idea di città: sino ad oggi l'architettura al Nord sembra essere prefigurazione di un'idea urbana come se la memoria della fondazione ex novo non possa che essere ogni volta riproposta, ripensata anche nei più piccoli manufatti. L'architettura-città tende a dominare la natura, anche nei contesti dove essa è ricca: la cupola della Salute vince sul Canal Grande, la griglia romana proiettata sul fronte della Casa del fascio domina le vette di Brunate.

Questa impostazione "tutta artificiale", può anche cadere in tentazioni accademiche e stilistiche (e, in fondo, del tutto ovvio che qui il seme metafisico sia cresciuto e si sia sviluppato sino a determinare la "Tendenza"). Eppure si può coltivare questa aspirazione di artificialità, anche con sensibilità, gusto, vera poesia: con un senso di straniamento onirico come nella Casa di Figini e Pollini alla V Triennale, nel Salone della Vittoria di Persico, nel Tubercolosario di Alessandria di Gardella, nella Villa Bianca di Terragni, nel tesoro di San Lorenzo di Albini. La Casa del fascio di Como è il simbolo di questa aspirazione, ma esistono opere che sotterraneamente vivono la stessa presenza di geometria, ordine, artificialità per combinarsi felicemente con la luce, con l'aria, con le funzioni, con la vita stessa. D'altronde forse è proprio l'Asilo Sant'Elia una delle costruzioni più importanti della nostra architettura. Un quadrato assiale e romano che introiettando lo spazio aperto ne deforma partiti e spazi; un'opera a un tempo funzionalissima, dinamica, nuova eppure con velature ed echi antichi.. Un quadrato assiale e romano che introiettando lo spazio aperto ne deforma partiti e spazi un'opera a un tempo funzionalissima, dinamica, nuova eppure con velature ed echi antichi.;

Per chi, come me, opera soprattutto nel territorio di Roma, credo che qualsiasi sfida di architettura debba nascere da una consapevolezza della sua ancora diversa specificità: da una lettura profonda, da una reale simpatia con la sua lezione. Come non pensare a Ludovico Quaroni e al suo indimenticabile e appassionato ritratto-progetto?. L'imprinting a Roma non è né scultoreo e greco, né militare e "romano". Caso mai è etrusco: quello delle necropoli scavate nella roccia, dell'organico combinarsi tra natura e architettura. Ma Roma è anche città storica per eccellenza (come Parigi è città di cultura, Los Angeles di velocità, New York di cosmpolitismo). A Roma storia vuol dire stratificazione, accumulo, riuso sulle tracce della civilizzazione precedente, palinsesto, compresenza di natura e architettura di oggi e di ieri. Quest'idea a volte è stato tradita nei secoli, ma altre volte è stata capita ripresa, coltivata. Piranesi è il simbolo di tale consapevolezza, ma anche alcuni progetti di oggi, sino a quella grande idea di Piccinato del Parco archeologico dell'Appia: un misto di ruderi, natura, paesaggio, architettura che fa penetrare la linfa del territorio fino al cuore stesso della città.

"Forti nelle differenze", diventa allora una direzione da perseguire, una cornice in cui muoversi, una formula da ricordare. È, allo stesso tempo, un modo per cercare, leggere, rilanciare le nostre diverse culture, una maniera per filtrare, con un misto di apertura e di freddezza, le vicende che dagli altri paesi ci arrivano, una consapevolezza della necessità di essere spesso in minoranza, di essere Contro.
 

II. Lenti sull'architettura siciliana

Passiamo in rapida rassegna alcune opere che, pur in maniera diversificata, sembrano meglio aderire a questo quadro. Cominciamo dal lavoro di Culotta e Leone a Cefalù che si è esteso a una scuola di architetti più giovani e che costituisce oggi un vero Modus operandi. Sono progetti che sentono la suggestione delle architetture di percorso delle acropoli o dei ruderi megalitici, greci e romani dei tanti siti archeologici in un continuo riannodare, aprire e chiudere, percorrere con sorpresa, ma anche con occhio vigile al circostante. Vi si afferma una interpretazione mediterranea delle architetture del razionalismo italiano e delle forme libere di Le Corbusier.

La strategia di riammagliamento che contraddistingue tanti interventi a Cefalù oltre che di Culotta-Leone anche di Marcello Panzarella si ritrova anche nella ricerca di altri. Basti guardare alla costruzione a Lampedusa di una villa di Tilde Marra, al centro sociale di Montedoro (Itaca Architetti) dove le nuove attrezzature (teatro, piscina, uffici, biblioteca) crescono uno sull'altra con una discontinuità planimetrica capace di adattarsi all'orografia e alle giaciture esistenti. Oppure il cimitero di Ciminna (Giuseppe Guerrera e Franco Grimaldi) o il piccolo giardino in un ex casello ferroviario a Sommatino (Ecopolis Associati).

La formula che guida queste opere - "l'universale dell'architettura e la specificità siciliana"- come tutte, è piena di margini di ambiguità, ma si è andata via via irrobustendo. Gli architetti accettano l'idea della contaminazione, la necessità di non arroccarsi in regionalismi o in retrive autonomie, ma al contempo sono attenti a sviluppare una loro specificità: una monomatericità colorata, una interpretazione mistica di costruzione come scultura abitata, il riannodarsi all'esistente senza rigidezze geometriche e planimetriche, la libertà degli edifici nel contatto con il cielo e il loro profondo radicarsi nel suolo irregolare. Sembra affermarsi quella semplicità violentemente moderna (anti-classica e anti-accademica) con cui Giuseppe Pagano rileggeva l'Acropoli di Atene.

A Menfi ha operato con successo Vittorio Gregotti nella ridefinizione della piazza più importante del centro agrigentino molto danneggiato dal terremoto. Gregotti opera in quattro edifici che insistono sull'invaso. Su quello meridionale, avvolge con un portico di accesso i ruderi della torre dei tempi di Federico II e erige un blocco che crea un significativo landmark. A fianco alla torre – che ospita sale espositive – vi è il restauro di un palazzo patrizio mentre, sul margine settentrionale della piazza, si costruisce la chiesa. Sullo stesso margine vi è il nuovo palazzo comunale che si estende anche lungo una via di accesso alla piazza. I volumi semplici e secchi, l'uso non nostalgico della pietra locale insieme ai profilati in alluminio degli infissi, l'orgogliosa resistenza di alcuni segni tipici del proprio stile fanno di questo esempio un successo.

A Gibellina nuova, nel trapanese, vi è, tra l'altro, il progetto le Cinque Piazze di Franco Purini e Laura Thermes. Un progetto la cui tensione è decisamente urbana perché riunifica una serie di isolati frammentati e poveri di senso con nuova forma, qualità e ritmo, crea uno spazio credibile per la comunità - usato per proiezioni all'aperto e per il mercato - oltre che come strada di attraversamento, riesce a sviluppare senza cadute di gusto un tema ludico nella piazza terminale, coglie, infine, che attraverso il ricorso prevalente alla pavimentazione si conserva la qualità dello spazio senza costose manutenzioni.

Certo, risolvere lo stare - e non solo l'attraversare - sarebbe anche stato socialmente auspicabile, ma questa opera è l'unica a Gibellina, e una delle poche in Italia , che riesce a fondare ex novo – senza poter sfruttare le tracce e la ricchezza del già esistente – le componenti pubbliche, rappresentative ed evocative della città. Nella risolutezza dell'acquedotto di Purini si sente tutto il peso dell'urbanizzazione romana: anche forte, anche imponente, ma assolutamente autentica.

Sempre a Gibellina, vi è la ricostruzione delle case Di Stefano. Marcella Aprile, Roberto Collovà e Teresa La Rocca hanno valorizzato per contenere spazi culturali il sistema di recinti del modello insediativo (concepito nel medioevo per resistere agli attacchi esterni, ma successivamente usato come centro di organizzazione del latifondo). È un'opera di re-invenzione (suffragata da studi tipologici sulla casa rurale siciliana e sui ricordi del vecchio proprietario) sulla base di pochi elementi pre-esistenti. L'esito è un microcosmo caratterizzato sia dallo spontaneo sovrapporsi delle costruzioni dei centri minori che dal sistema delle corti regolari del potere latifondista.

Infine, sempre a Gibellina nuova, vi è il palazzo Di Lorenzo di Francesco Venezia, una delle decisive architetture italiane di questi anni.

Sulla scorta di un frammento di facciata del vecchio paese rimasto in piedi dopo il terremoto e trasportato nel nuovo sito, l'architetto rimette in circolo molteplici motivi. Le citazioni al Danteum di Terragni si ritrovano negli stretti camminamenti di entrata, nelle entrate tangenziali di un segreto custodito che riscopre i due ordini della vecchia facciata incassati nella parete che ospita al primo piano la sala espositiva, e poi nel percorso a spirale che dalla corte conduce al piano superiore, nel camminamento che incornicia e dà profondità al paesaggio per condurre di nuovo trasversalmente alla vista della corte nella sala del "riposo" per terminare alla vista del paese mediata dai terrazzamenti coltivati.

In questa opera si rivela anche la lezione di Carlo Scarpa cha nel rifacimento del palazzo Abatellis a Palermo aveva dato una prova anche nell'isola. Le sculture disseminate, ma spesso avulse, sparse per Gibellina qui hanno la capacità di interagire con l'architettura e il paesaggio: il serpente di Pierjulio Montano che si snoda tra una feritoia della sala del riposo e il cavallo caduto di Mimmo Paladino contro il muro esterno alla quota superiore. Un simbolo - questo stupendo cavallo che guarda alla ragione continentale della sfera di Quaroni - che sembra voler rimanere sdraiato tra i ruderi del passato. Fa pensare se, nell'animo di questa terra, la bellezza tragica della caduta e della sconfitta sia una condizione che si voglia davvero superare.

A Catania infine ha operato Giancarlo De Carlo in una estesa opera di restauro e di innesto di nuovi corpi per la nuova Facoltà di lettere e Giacomo Leone in una serie di realizzazioni da una parte memori della lezione neo-brutalista di Samonà e del suo teatro di Sciacca, dall'altra, come nel grande centro congressuale e fieristico sul lungomare di Catania, attento anche a nuovi temi temi. Si tratta di una grande area dismessa a ridosso della ferrovia e prospiciente il mare occupata nel passato dalle industrie di trasformazione dello zolfo.

L'architetto mette insieme, committente la provincia, un complesso interessante innanzitutto per il complesso di funzioni che si innestano (museo, zone fieristiche, teatro, cinema, aree espositive e per il tempo libero, ambienti per associazioni ricreative). L'architettura è da una parte violentemente contemporanea (tutta la struttura è in ferro con pezzi di notevoli audacia) e allo stesso tempo ingloba alcuni inserti antichi (vecchie mura, ciminiere, capannoni). Il progetto crea una successione di spazi frastagliati, dinamici, attenti alle funzioni all'aperto con viste mutevoli da cui si incuneano il Vulcano e il mare. L'insieme degli spazi e dei corpi si àncora su una grande aula di conferenza trattata come un enorme masso arenato sulla costa. Insomma, un'opera di livello europeo, sul tema dei temi della città contemporanea - quello appunto delle ex aree industriali -, di cui ancora poco si sa e che qui viene "meridianamente" declinato.
 

III. Il nostro in-between

Fare questo rapido giro per le recenti architetture siciliane non deve nascondere la consapevolezza di aver visto e parlato solo di un'avanguardia. Basta infatti un rapido sguardo alle crescita di città e cittadine per vedere il vero meccanismo in opera: l'accettazione acritica della modernità come strumento per razionalizzare industrialmente un abuso che trasforma le consuetudine interpersonali e solidaristiche di una cultura contadina in strumenti clientelari e di corruzione. Il territorio è Cosa Nostra, non nel senso di un bene comune da valorizzare, ma come appropriazione indebita e malavitosa che dalle speculazioni in grande scala agli abusi dei piccoli attraversa per intero l'isola.

Ma queste opere, questi architetti dimostrano che è anche possibile essere contro. Oggi forse da posizioni marginali, d'avanguardia illuminata, ma con la consapevolezza che bisogna sollevarsi.

Tra il mare di quest'isola e la memoria dei suoi templi e dei suoi camminamenti, tra natura e passato, tra cielo e architettura vi è per intero tutta la sfida del presente.

Certo con una consapevolezza dei caratteri specifici (storici, geografici, culturali), ma anche lo scambio, il matrimonio, la contaminazione. Stefano d'Arrigo, Tommasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini, il Nobel Salvatore Quasimodo e per ultimo il best seller Camilleri sono sicilianissimi e universali. È una strada che non solo gli isolani, ma anche gli archietti italiani hanno intrapreso e possono continuare

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Cosa vuol dire, allora, aver posto all'attenzione il concetto di Imprinting con cui abbiamo iniziato questa rapida ricognizione? Innanzitutto rifiutare seccamente ogni facile operazione di "Memoria". Le riprese stilistiche di forme, apparati decorativi, stilemi non è operazione adulta. Pensare alla vitalità dell'infanzia, al suo profondo influsso sul nostro divenire non è nostalgia, ma ricerca di vera, complessa, accumulata maturità. Gli architetti italiani, non possono sfuggirvi. La ricerca architettonica per noi non può muoversi che tra la permanenza di profondissimi ragioni e aperture alle crisi che l'oggi ci pone. È una strettoia drammatica e impervia - è il nostro in-between - attraverso cui si deve però passare.

Antonino Saggio
La Sapienza Roma