I risultati formali a cui questa ricerca tematica approda trovano nella teoria della Light Architecture un gradiente in più nell’elaborazione dei dati di partenza.

Inoltre, la ricerca  volta ad analizzare l’ARCHITETTURA COME SPETTACOLO in relazione all’ESTETICA CUM MARKETING pone a nostro avviso un nuovo concetto. Andando ad operare proprio sul GASOMETRO, una struttura anonima per la città di Roma che in se non ha nulla di spettacolare, poiché non è certamente paragonabile nè alla torre Effeil nè tanto meno al Cristal Palace considerati uno spettacolo “puro” e “simbolo” delle città di Parigi l’una e di Londra l’altra, ci ha dato l’opportunità di verificare come questo nuovo tipo di architettura e modo di progettare ha un altro aspetto molto importante. La possibilità di riqualificazione della città attraverso interventi di chirurgia urbana i quali permettono di rivitalizzare zone addormentate della città stessa.

Il metodo progettuale diventa così da induttivo a deduttivo ragionando dall’alto verso il basso nel senso che prima si cerca di dare un idea forte che abbia un impatto immediato sui suoi fruitori, e poi ci si pone i problemi classici della struttura delle funzioni. Ecco allora che si arriva al concetto di Media Building che non è altro che un applicazione della Ligth Architecture (mondo reale - mondo virtuale) applicata ad un edificio o come nel nostro caso ad una semplice struttura a traliccio, il GASOMETRO appunto.

Infatti questo concetto della Light Architecture applicato agli edifici consente di progettare con strumenti diversi da quelli tradizionali come nebulizzazioni d’acqua, fibre di carbonio, vetri fotovoltaici, materiali compositi, materiali gonfiabili, l’uso di tecnologie per video proiezioni, raggi luminosi volti a creare nello spazio nuove forme geometriche. Una architettura fatta con materiali leggeri per una architettura provvisoria e mutevole.

L’uomo da semplice spettatore diventa così interattore, cioè un individuo capace di entrare in un contesto urbano e interagire con esso senza rimanerne intrappolato.

 

 

 

Forme dello spettacolo

Joan Ockman Nichola Adams

Lo spettro dello spettacolo

Peter Eisenman

LO  SPAZIO  SENZAZIONALE

Gabriele Mastrigli

Terreni mutanti

 C. Carbone e G. Marino

LIGHT ARCHITECTURE

Gianni Ranaulo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Forme dello spettacolo

Joan Ockman e Nicholas Adams                                                                       ^

 

Un numero americano... Nell'assumerci l'impegno di preparare un numero speciale di «Casabella» sull'architettura americana alla fine del millennio, naturalmente siamo intimiditi dal compito e, assieme, restii a realizzare un ennesimo rapporto "nazionale", organizzato per aree geografiche, generazioni o tipi edilizi. Nello spirito decisamente stravagante del momento in cui la grande sfera di cristallo scende tra la massa delirante di festaioli a Times Square e la scena è trasmessa in tutto il mondo, abbiamo invece scelto di strutturare il numero attorno al tema dell'architettura come spettacolo.
Celebrazione o saggio critico? Entrambi, inevitabilmente. Alla fine del "secolo americano", è innegabile che molta architettura degli Stati Uniti si iscriva sotto il segno di quella che nel 1967 Guy Debord aveva descritto, in maniera preveggente, come la società dello spettacolo. Tuttavia, mentre i commentatori, da Debord a Jean Baudrillard fino a Paul Virilio, hanno denunciato in termini apocalittici i fenomeni di una cultura consumistica guidata dall'immagine, dalla superficialità, dalla simulazione e dalla velocità, è chiaro che oggi la spettacolarizzazione dell'ambiente è un dato di fatto, non so- lo negli Stati Uniti. La collusione degli architetti americani con alcuni aspetti di questa realtà non solo non è apologetica ma, oseremmo sostenere, è in gran parte inevitabile, se le loro opere non devono essere relegate al ruolo di quelli che Manfredo Tafuri definiva «oggetti insignificanti». Almeno due eventi significativi sono serviti da spunti immediati per questo numero. Il primo è il Guggenheim Museum a Bilbao, progettato da Frank Gehry.

Come John Rajchman suggerisce nel suo saggio, il tanto decantato "effetto Bilbao" .è un cambiamento di paradigma, rispetto all'implosivo "effetto Beaubourg" che Baudrillard descriveva nei primi anni settanta. Bilbao esemplifica un edificio - oggetto, esterno ai centri metropolitani principali, che, attraverso il virtuosismo estetico, è riuscito a rivitalizzare un centro urbano industriale in decadenza e ad attirare l'attenzione della cultura internazionale.

 

La capacità di un unico edificio di sortire un effetto talmente potente, sia in sede locale che mondiale, è una delle grandi sorprese architettoniche della fin de siècle. L'interrogativo che al mo- mento si pone a Frank Gehry e ai suoi possibili epigoni (almeno implicitamente) è fino a che punto questa strategia di estetica-cum-marketing possa essere ripresa, prima di divenire formula stantia.

 

 Non sorprende scoprire che, quando il Cincinnati Museum of Contemporary Art ha scelto Zaha Hadid per la sua nuova sede, il direttore le abbia chiesto espressamente di «realizzare un'altra Bilbao». Analogamente, i responsabili dell'ampliamento del Victoria and Albert Museum a Londra hanno approvato il progetto di Daniel Libeskind solo dopo Bilbao.

 In rapporto a ciò, l'odierno cambiamento di estetiche da capannone decorato ad anatra, da costruzione "leggera" a "organica" o, in termini più moderni, da parallelepipedi a volumi amorfi potrebbe essere soltanto un altro episodio, nel sempre più veloce avvicendarsi di stili. Di certo, il computer ha, giocato un ruolo senza eguali, nell'incoraggiare il virtuosismo. AI momento, tuttavia, Bilbao e la sua progenie sono considerati come una manifestazione nuova, indicativa dei nostri tempi. Il secondo avvenimento è il risana mento di Times Square, a Manhattan. Ulteriore esempio della disposizione dell'architettura -più esattamente del sistema di segni architettonici a ravvivare un quartiere urbano, il "piano ad interim" per la 42nd Street ideato da Robert A.M. Stern nel 1993, era una soluzione specificamente post-recessione. Basato sull'idea di resuscitare il quartiere dei teatri, attraverso l'espediente di immagini pubblicitarie audaci e sensazionali, il piano proponeva una crescita modesta e, di conseguenza, minori rischi di quanto non avrebbe fatto lo sviluppo di mega uffici, progettato negli anni ottanta. All'inizio, la disneyficazione di Times Square ha suscitato cori di critiche, da parte dei locali, che l'hanno considerata un innesto per i turisti, "inautentico"; adesso è evidente che il piano rappresentava davvero una fase di transizione. Oggi, l'esibizione cacofonica di elettricità che piove sui passanti dagli edifici di Times Square e il coinvolgimento di architetti celebri appaiono come un mezzo per raggiungere uno scopo. Dietro le facciate, si realizza esattamente il risanamento che costituiva la grande scommessa degli anni ottanta. Partecipano al gioco non sol- tanto i potenti mediatori delle industrie dello spettacolo e dei mezzi di comunicazione ma anche i se veri funzionari del mondo della legge, dell'amministrazione e della finanza. In effetti, l'ibridazione tra cultura e affari è un'altra novità dei tempi. In questo contesto, il ruolo che l'architettura è spesso chiamata a svolgere è di specchietto per le allodole. Gli architetti "d'avanguardia" di oggi si tratti di Bilbao, di Times Square o di comunità "neo-urbaniste" come Seaside in Florida hanno il compito di preparare il terreno alla futura commercializzazione e trasformazione di quartieri popolari in zone di lusso. L'idea di fornire plusvalore ai beni immobili, attraverso l'estetica, non è di certo nuova, sebbene la strategia sembri godere di un successo senza precedenti nel momento in cui l'economia americana è di nuovo prospera. Cosa ancor più importante, tra gli effetti secondari vi è la richiesta di edifici di qualità elevata, che ravvivino e migliorino l'ambiente. Tuttavia, la questione del futuro è aperta. Quante altre insegne sono possibili a Times Square, prima di raggiungere la saturazione? Un interrogativo, ancor più preoccupante, è: cosa accadrebbe, con un'altra crisi economica? Rispetto alla prima domanda, un avvenimento significativo si è verificato la scorsa estate, quando Nasdaq, una delle più piccole borse valori di New York, è stata citata in giudizio dal vicino del "piano superiore", Condé Nast, per impedire la collocazione di un tabellone pubblicitario grande come tre campi da pallacanestro. Condé Nast lamentava che l'insegna avrebbe ostruito luce e vista ai propri uffici; a quanto pare, un'insegna finalmente "troppo grande" per Times Square. Bilbao e Times Square rispecchiano un'espansione senza precedenti dell'industria culturale e turistica. La proliferazione e l'ampliamento dei parchi a tema, da Disney World a Las Vegas, sono nuove tecniche di svago preconfezionato. È ingiusto paragonare il Guggenheim Museum o il nuovo Getty Center di Santa Monica, con la loro reputazione di nobile arte, alle creazioni grossolanamente commerciali di un John Portman o di un Jon Jerde? Durante un simposio in onore di Philip Johnson, Peter Eisenman ha avuto il candore di chiedere cosa rendesse il suo lavoro diverso da quello, per dire, dei creativi Disney. Si è trattato, senza dubbio, del momento più interessante della manifestazione, che, con il suo elenco di oratori celebri, era già in sé spettacolo. Il successo del Bellagio Hotel a Las Vegas, dove i visitatori fanno la fila (e pagano) per vedere la collezione di Picasso e di Van Gogh dell'impresario Steve Wynne, in un sontuoso scenario all'italiana, testimonia come negli Stati Uniti i confini tra cultura e divertimento r siano sempre più labili. Mentre Las Vegas ha fatto parte del grand tour degli architetti dalla pubblicazione dello standard di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour nel 1972, l'attuale riproposizione di questa città del "selvaggio west", come meta turistica di famiglie con bambini e amanti dell'arte, è un incubo per gli apostoli della cultura. Paradossalmente, gli stessi Venturi si sono di recente lamentati della fine dello Strip di Las Vegas, che trovavano affascinante trent'anni fa. Fatto ancor più paradossale, è stata proprio l'analisi di Las Vegas dei Venturi la principale fonte d'ispirazione del piano di Times Square ideato da Robert Sterno. La divertente atmosfera da galleria degli specchi che, oggi, spinge Las Vegas a riprodurre i grattacieli di New York in miniature iperrealistiche (sotto forma di un nuovo albergo, chiamato New York -New York) è persino troppo sfacciatamente un capriccio per essere commentata. Pace a Baudrillard. Eppure, riguardo al fornire una spiegazione del fascino duraturo della città, il più convincente è il critico Dave Hickey moderno re filosofo di Las Vegas che, per lo meno, propone un gradito antidoto al pessimismo dei teorici francesi. Paragonando Las Vegas a una città del vicino New Mexico, che fa affari sulla nostalgia per il passato da indigena americana, Hickey ha apertamente dichiarato la propria preferenza «per la reale falsità di Las Vegas, rispetto alla falsa realtà di Santa Fe». Un'altra, consequenziale forma di spettacolo è emersa nell'ultimo decennio, quando il locus privilegiato culturale e commerciale si è trasferito dalle autostrade interstatali all'autostrada dell'informazione, all'internet. Il computer ha aperto un territorio vasto e ancora inesplorato per la produzione di immagini spettacolari. Gli architetti (al pari di chiunque altro) navigano nella realtà virtuale con sempre maggiore facilità e fantasia. L'internet ha anche pro- messo nuove forme di interazione e partecipazione, sebbene la molteplicità di opzioni offerte dalla tastiera non si sia ancora dimostrata un valido sostituto all’esser lì. Tuttavia, i migliori ambienti virtuali danno libero corso all'immaginazione spaziale, per esplorare le allettanti visioni di abitazioni del futuro che i precursori (da Boullée e ledoux a Sant'Elia e Chernikhov) potevano soltanto sognare. AI contempo, non è facile sostenere fantasticherie utopistiche, seppure arricchite da immagini digitali, nel contesto disincantato del postmodernismo. Come suggerisce Debord, in questo senso potrebbe esserci profonda affinità tra la nostra epoca e quella barocca che, perduta la fiducia nell'ordine mitico del Rinascimento e del medioevo, scoprì il proprio significato nel teatro o nelle celebrazioni. A differenza del teatro barocco, tuttavia, il teatro (e il cinema) moderno ha introdotto una dimensione critica, nell'esperienza della visione. Rispetto all'inevitabile complicità tra la professione dell'architettura e le forze del mercato, oggi la prospettiva non è il rifiuto di partecipare ma piuttosto la riconcettualizzazione della dimensione teatrale e festiva dello spettacolo. Oltre alla semplice scenografia, oltre al panem et circenses, lo spettacolo ha nei propri strumenti le potenzialità per stimolare l'impegno attivo, mettendo a nudo la separazione tra "palcoscenico" e "pubblico". In definitiva, il problema potrebbe non essere il fatto che l'architettura sia diventata spettacolo, quanto piuttosto che la forma stessa "spettacolo" sia in crisi e debba essere reinventata. Così, a parte l'interesse per la catalogazione di alcune forme ibride di spettacolo, caratteristiche dell'architettura americana di oggi, il vero interrogativo è se queste forme abbiano o meno le potenzialità sia per l'innovazione, sia per l'alternativa. Le teorie che hanno dominato il campo sin dagli anni sessanta sono ormai un cui de sac. Come Siegfried Kracauer ha spiegato in un importante saggio sull'ornamento di massa già nel 1927, il processo di trascendere la vacuità e la superficialità della vita moderna conduce direttamente al centro dello spettacolo e non al di là di questo. I progetti che presentiamo potrebbero suggerire alcuni percorsi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo spettro dello spettacolo

Peter Eisenman                                                                                                   ^

 

 

Richard Serra ha affermato che «la Bilbao di Frank Gehry è più spettacolo che struttura». Il commento parrebbe qualcosa di più di un'osservazione estemporanea. In un'epoca post-culturale, lo spettacolo è una possibile matrice per una critica della struttura; come tale, può fornire un'utile griglia per analizzare la situazione attuale. I dizionari danno due definizioni per "spettacolo": qualcosa di "vistoso"; "esposizione al pubblico". Lo spettacolo come esposizione al pubblico nasce dall'evoluzione dei fenomeni spontanei, pubblici e collettivi, che implicano partecipazione di massa: dai tornei e feste medioevali alle esposizioni nazionali e alle fiere mondiali dell'ottocento e novecento. Tale evoluzione si riflette nell'architettura. Il primo caso richiedeva spazi sufficientemente ampi, per un gran numero di persone, mentre per il secondo erano necessari edifici pubblici che, al tempo stesso, accogliessero gli spettacoli e divenissero spettacolari. La natura spetta- colare di edifici, quali il Crystal Palace di Londra, ha reso possibile la torre Eiffel, che era quasi spettacolo "puro", non essendo costruita per accogliere né un evento, né i suoi spettatori.
Con l'ascesa della classe media, sono sorte nuove concezioni dello svago, che ponevano un'enfasi ancor maggiore sullo spettacolo, sia come avvenimento, sia come oggetto. Il mutamento del modo d'uso del tempo delle persone ha implicato un cambiamento del modo di utilizzare lo spazio, a cui ha corrisposto un passaggio di priorità dal pubblico al privato. In simile contesto, l'ambito pubblico dello spettacolo si riduceva spazialmente, mentre prosperavano luoghi privati per tali funzioni. Un ulteriore passaggio esterno/interno si è avuto con l'avvento del cinema. A questo punto, lo spettacolo si è trasferito all'ambiente più controllato e chiuso del cinema, dove la visione di spettacoli sullo schermo diventava evento quotidiano. Tuttavia, malgrado la loro disponibilità, i cinema proponevano esperienze lontane dalla vita quotidiana. I nuovi palazzi del tempo libero, privati e commerciali, offrivano spettacoli di opulenza, fantasie di luoghi esotici e lontani; il loro pubblico non era più limitato da spazio e tempo. Producendo tale annullamento o distorsione del tempo e dello spazio reali, gli spettacoli cinematografici provocavano anche la trasformazione della nascente classe media da partecipanti attivi in una folla passiva. Con la progressiva passivizzazione e introversione dello spettatore, l'ambiente di questi spettacoli -non soltanto i film, in ogni caso soppiantati dalla televisione, ma anche di altri eventi, quali concerti e oggetti d'arte- diventava, in alcuni casi, estremamente estroverso. Edifici come il Centre Pompidou a Parigi, la Sydney Opera House e, adesso, il museo Guggenheim a Bilbao, possono essere considerati il punto di arrivo estremo di questa evoluzione. Una terza caratteristica dello spettacolo con- temporaneo -sia come evento che come struttura- può essere fatta risalire alla messa in scena di un raduno nazista a Norimberga, realizzata da Leni Riefenstahl e Albert Speer nel 1934. Qui l'evento reale diveniva simulazione, scena allestita per un film di propaganda. I partecipanti alla parata monumentale erano, al tempo stesso, osservatori e osservati, spettatori e voyeurs, testimoni interni ed esterni del programma propagandistico. Pel desiderio di trasformare un raduno di massa in spettacolo della volontà del Volk, Riefenstahl e Speer sfruttavano un mezzo, l'evento dal vivo, come veicolo per un altro mezzo, il film. Ne derivava una duplice simulazione: non soltanto lo spettacolo chiamava in causa la natura del reale ma segnava anche l'inizio della sostituzione del contenitore fisico l'architettura- con l'apparenza del con- tenitore in questo caso, un colonnato luminoso disegnato dai riflettori. La duplice simulazione annullava la differenza tra modello e copia: con essa, la possibilità dell'inatteso e del non programmato, che è l'essenza dell'esperienza architettonica, andava persa, a favore della certezza dell'immagine inquadrata e manipolata. Occorre fare ora due distinzioni: la prima tra evento e spettacolo, la seconda tra architettura e parco a tema. Entrambe si rifanno alla natura "vistosa" dell'oggetto-spettacolo, in relazione al soggetto. Una differenza tra evento e spettacolo è costituita dal ruolo svolto dal soggetto o osservatore. L'evento si verifica nel presente e il soggetto o osservatore è parte della sua azione. Nello spettacolo, il soggetto o osservatore è rimosso dal presente e, di conseguenza, ha un ruolo diverso, forse anche critico. Proprio perché il soggetto non è più fisso, come il partecipante in tempo reale, qualsiasi discussione sullo spettacolo implica la domanda su dove il soggetto si trovi, in relazione all'oggetto. Secondo Norman Bryson, possiamo contrapporre in questo contesto il francese regard, solitamente reso in inglese con gaze (sguardo), a coup d'oeil o glance (colpo d'occhio). Lo spettacolo sembra implicare il soggetto nella posizione rimossa del colpo d'occhio, in contrapposizione alla posizione impegnata dello sguardo. Per Guy Debord, d'altra parte, lo spettacolo è in sostanza una questione di immagine, non immagine della struttura ma piuttosto di un soggetto nel processo del mutamento, un'ombra dietro l'immagine della struttura, un'autonomia negativa. La negatività del concetto di spettacolo proposta da Debord è significativa. Lo spettacolo è potenzialmente critico, quando non è più diretto verso lo spettatore presente, quando cessa di separare ideale osservatore reale e spettatore virtuale. Ad esempio, nel progetto di stadio e centro congressi a Mesa, l'immagine dello spettatore virtuale è catturata dall'onnipresente dirigibile che si libra sulla struttura. La ripresa mediata, di rigore per il pubblico televisivo della partita del lunedì sera, è diventata nello sport il mezzo discorsivo più importante. Quindi, per dare una lettura più critica del fenomeno, lo spettatore esiste quale presenza indefinita, piuttosto che come pubblico reale. Una volta che lo spettatore cominci a simulare di essere spettatore, una volta che il contenitore non sia che un palcoscenico per la rappresentazione, lo spettacolo si riduce a mera costruzione d'immagine, l'architettura comincia a somigliare a un parco a tema. Debord sostiene che lo spettacolo rappresenta il dominio dell'apparenza sulla realtà, della vita sociale come palcoscenico di apparenze; per Debord, lo spettacolo è una negazione visibile della vita, così come esiste in molteplici forme visive. Nel parco a tema, l'esperienza deve essere la stessa possibile rappresentazione della realtà per tutti. Un esempio di differenza tra spettacolo e architettura è legato all'idea di tempo. L'architettura implica ripetizione del tempo, non solo narrativo o cronologico, ma anche disgiunto dall'esperienza fisica del soggetto. In questa disgiunzione, l'architettura produce un tempo che è interno all'oggetto e che non è quello dell'evento: ne deriva una distinzione tra tempo reale e virtuale. Mentre il parco a tema tenta di annullare questa distinzione, producendo per il soggetto un'esperienza omogenea e priva di cesure, il nuovo spazio virtuale dell'architettura può creare una condizione di oscillazione, una condizione "intermedia", che mette in discussione la realtà, nello stesso tempo in cui è realtà: non si conforma più alla funzione meccanica ma mette in discussione la funzione. Nel nostro progetto in Arizona, si è tentato di far emergere questa fondamentale distinzione. Si è cercato di dissimulare la funzione di stadio della costruzione, per affrontare la questione del suo aspetto, se non dovesse apparire come stadio. Un'architettura critica deve permettere esperienze inattese e inintenzionali, letture diverse da parte di soggetti diversi. Non può mirare a fornire la stessa esperienza a ogni osservatore. Non può essere ripetizione della stessa cosa, come nel parco a te- ma, ma deve essere ripetizione di differenza. Questa dimensione critica può contrapporre l'architettura al parco a tema e, forse, anche allo spettacolo. Abbiamo disgiunto immagine e funzione dello stadio. Lo spettro dello spettacolo diventa allora possibilità critica: che una cosa sia disgiunta nello spazio e nel tempo. Il concetto di disgiunzione ha portato a una nuova concezione del virtuale, qua- le modo per produrre una diversa autonomia, negativa o critica, dell'oggetto architettonico.
C'è stato, certamente, un mutamento, nella percezione pubblica dello spettacolo. Ciò che a prima vista sembra un gesto radicale, a Bilbao, diventa oggetto di consumo pubblico e mediatico. Nel progetto in Arizona, diventa una "ripresa dal dirigibile". La domanda che noi architetti dobbiamo porci, quando realizziamo oggetti spettacolari, è: «stiamo realizzando un progetto critico? o stiamo diventando parte dello stesso spettacolo che crediamo di criticare?».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LO  SPAZIO  SENZAZIONALE

Gabriele Mastrigli                                                                                              ^

 

 

 

Man mano che i nostri corpi si trasformano in cyborg, gli edifici che li ospitano si trasformano anch'essi. I sistemi di telecomunicazione sostituiscono sempre più i sistemi di circolazione e il solvente dell'informazione digitale corro- de i tipi edilizi tradizionali. Una dopo l'altra, le forme familiari scompaiono, poiché i residui dei frammenti ricombinati generano mutanti." Così William J. Mitchell esordisce nel quarto capitolo della sua ormai famosa City 01 Bits, raccontando l'avanzare inesorabile della città digitale e la conseguente dismissione delle vecchie tipologie architettoniche. Dalle gallerie ai musei virtuali, dagli ospedali alla telemedicina, dalle prigioni ai Programmi di Controllo Elettronico, dalle banche ai Bancomat, dai Grandi Magazzini all' e-commerce sino alla categoria generica ed invasiva del lavoro in rete, la sconfitta del- l'hardware contro il software sembra ormai tanto inevitabile quanto sistematicamente annunciata (Mitchell, 1997). Non bisogna essere addetti ai lavori per intuire che gli edifici delle Borse siano territori privilegiati dei processi di smaterializzazione. Gli antichi saloni per le contrattazioni, luoghi simbolo che l'architettura ha da sempre sottolineato (Berlage ad Amsterdam per tutti), appaiono obbligati a cedere il passo ad aree di scambio sempre più virtuali, (diluite tra reti di computer e terminali, in grado di gestire con l'uso di potenti calcolatori elettronici transazioni finanziarie altrimenti impossibili. Wall Street, che per Mitchell è oggi una fiorente regione del cyberspazio, è recentemente balzata agli onori delle cronache per l'ultima realizzazione dello studio newyorchese Asymptote: il 3DTF acronimo per Three Dirnensional Trade Floor, in breve la sala per le contrattazioni virtuale della Borsa di NewYork. Il progetto risale al 1994 quando alcuni dirigenti del NYSE (NewYork Stock Exchange), dopo aver assistito ad una demo di visualizzazione 3D su computer Silicon Graphics, iniziano ad ipotizzare un sistema in grado di rappresentare tridimensionalmente ed in tempo reale l'articolato meccanismo degli scambi. Ben presto la complessità delle operazioni che il programma avrebbe dovuto gestire convince il NYSE ad affidare la progettazione dell' ambiente virtuale agli architetti Rani Rashid e Usa Anne Couture, fondatori nel 1989 dello studio Asymptote, da anni impegnati in prima linea nella sperimentazione su datascapes e spazi digitali, come testimonia, tra l'altro, il progetto didattico "Paperless Studio" promosso insieme a Bernard Tschurni alla Columbia University.
Il 16 marzo del 1999 il 3DTF è operativo. Wall Street, che da sempre è all'avanguardia nella tecnologia dell'informazione (l'installazione dei primi telefoni nel salone degli scambi risale nientemeno che al 1878), inaugura così il più grande ed innovativo ambiente VR del suo genere. Il modello, realizzato con la tecnologia VRML (VIrtual Reality Modeling Language), è di fatto uno spazio navigabile completamente interattivo dalle sembianze della sala delle contrattazioni reale (comprese le postazioni di scambio), nel quale gli operatori possono accedere ad un ampio parco di flussi informativi, dati e modelli di correlazione per seguire ed intervenire direttamente sul mercato delle transazioni. Si può esplorare il 3DTF dai nove pannelli piatti da 25 pollici posti nella sala principale, oppure dal Centro Operativo Avanzato, un ampliamento (reale) della sala stessa che Asymptote ha realizzato successivamente. Subito battezzato "la Rampa" perché collocato in un'area di circa 30 metri con un pavimento in leggera pendenza, il Centro è caratterizzato innanzitutto da una parete ondulata in vetro azzurro a doppia curvatura nella quale sono inseriti 60 monitor a cristalli liquidi e schermo piatto ad alta risoluzione. Sei supercomputer Silicon Graphics Onyx2 gestiscono il complesso software di navigazione virtuale che Rashid &Co. hanno messo a punto grazie all'ingegnerizzazione della SIAC (Securities Industry Automation Corp.) ed ai protocolli di animazione RT-Set (Asymptote, 1999). La peculiarità del progetto è da subito identificata nelle sue caratteristiche spaziali. "La sfida", afferma Dror Segal, direttore della SIAC "non era tanto quella di mettere insieme le informazioni quanto di costruire l'interfaccia 3- D". "Se non fai un buon 3D o realizzi delle cattive animazioni", commenta Anne Allen, responsabile del Trading Floor "corri il pericolo di provocare agli utenti quasi il mal di mare.(...) Inoltre potrebbe di essere poco confortevole volare attraverso uno spazio che non è uno spazio normale, oppure muoversi bruscamente o troppo velocemente." Cosa c'è dunque dietro un progetto che sfrutta le tecnologie più avanzate per riprodurre virtualmente una spazialità tridimensionale in fondo così ordinaria? E più in generale. Come mai, a fronte del progressivo abbandono delle postazioni di lavoro tradizionali, i nuovi "schermi" ci mostrano un mondo elettronico descritto in immagini che rimandano al suo alter ego materiale con platealità ed ironia sempre crescenti? "Viviamo nell'illusione che sia il reale a mancare maggiormente, mentre invece la realtà è al suo culmine". Sostiene Baudrillard: “A furia di performance tecniche siamo arrivati a un tale grado di realtà e di oggettività da poter parlare di un eccesso di realtà che ci lascia molto più ansiosi e sconcertati della mancanza di realtà, la quale poteva per lo meno essere compensata con l'utopia e con l'immaginario” (Baudrillard,1996). Più di trent'anni fa HAL 9000, il sofisticatissimo computer-killer che guidava l'astronave di 2001 Odissea nello Spazio alla volta di Giove, interagiva efficacemente con l'equipaggio (ricordate la lettura labiale del povero Frank?), mediante una modestissima interfaccia grafica, proprio in un film tutto votato a rappresentare visivamente l'esperienza del superamento dei confini spaziotemporali conosciuti, in un trionfo di tecnologia ancora oggi difficilmente ipotizzabile. HAL, parente degli odierni PC più di quanto non si creda (le tre lettere, acronimo di Heuristic and ALgorithmic, vale a dire i due metodi di conoscenza e comunicazione, anticipano nell'ordine alfabetico la sigla IBM), è dunque il prototipo di quel mondo virtuale di fatto mai realizzato. Una VR utopica che inesorabilmente è stata sconfitta dall'impressionante avanzare di una realtà digitale quotidiana che attinge a piene mani e sempre più freneticamente nel rèpertorio di immagini del mondo "in carne ed ossa. Dal successo dell'interfaccia Macintosh che ha costretto IBM ad abbandonare l'astratto sistema DOS per le colorate Finestre di Bill Gates, il vero destino del virtuale non è dunque la sostituzione o l'eliminazione del reale ma il suo "arricchimento". È il passaggio dalla VIrtual Reality alla Augmented Reality"(De Kerckhove, 1999). Protetta dall'alibi di moltiplicare a ritmo esponenziale la quantità di dati ed informazioni a nostra disposizione, questa nuova "realtà arricchita sortisce almeno due ulteriori effetti: da una parte esorcizza il passaggio alla dimensione cibernetica, che de-realizza la presenza dell'altro e ne disattiva di fatto la prossimità (Virilio, 1998), mediando la progressiva smaterializzazione del reale nel quale ogni coordinata geografica, grazie alle tecnologie più recenti (da Internet ai telefoni cellulari, dal Global Positioning System alle telecomunicazioni satellitari), può essere già oggi un potenziale punto "attivo" del cyberspazio (Novak, 1999). Dall'altra trattiene nella dimensione digitale quell'impressione di soggettività ed inesattezza che allontana dai nostri collaboratori elettronici la fastidiosa incombenza di ricordarci, dal bagliore fosfenico dei loro monitors, che il loro è invece un sistema codificato, e quindi un mondo perfetto. Disinnescare la perfezione astratta e insopportabile del mondo digitale sembra essere, agli albori del terzo millennio, l'imperativo della virtualità, forse proprio perché tale. (Avrete certa- mente notato con quale eccitazione, piuttosto che preoccupazione, i media hanno annunciato i pericoli potenziali del Millenium Bug). Lo strumento è la sensazione virtuale. Dalle allegre scrivanie dei nostri home computers, intasate da un formidabile repertorio di cancelleria lillipuziana, sino alle frontiere più estreme del sesso informatico dilagante sulla Rete, prima la vista, poi l'udito, ed ora anche il tatto e (dicono) l'olfatto compaiono tra le interfacce necessarie ad attivare tanto elettronicamente quanto emotivamente la nostra presenza nel mondo digitale. Non stupisce allora che gli stessi ingegneri del SlAC che hanno coinvolto Asymptote nella realizzazione del 3DTF lo abbiano definito innanzitutto "un progetto molto eccitante". Il 3DTF è letteralmente un progetto "sensazionale", in grado di definire al di là delle necessità tecniche e dei compiti istituzionali un ambiente dinamico, ricco di informazioni ma spazialmente aggressivo, in cui l'uso delle luci e dei colori ma ancor più delle forme, del movimento "aereo" e della prospettiva aberrata restituisce lo stesso senso di vertigine e di appartenenza che sta alla base della seduzione tridimensionale, coinvolgente e contagiosa, dei più conosciuti videogame come Doom o Tomb Raider. Tutto questo in attesa della Quinta virtualità (Novak, 1999), quando la VR, non più contenuta all'interno delle tecnologie che attualmente la sostengono e ne filtrano la presenza nel reale, verrà gettata in mezzo a noi e proiettata sulle nostre architetture e sulle nostre città

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Terreni mutanti

di C. Carbone e G. Marino                                                                                        ^

 

 

Dalla teoria dell'ipersuperficie in poi, si sviluppa un filone di ricerca che fonda la propria legittimazione sull'uso delle tecnologie informatiche applicate ad ogni stadio della progettazione. I modelli dinamici di Greg Lynn, risultato combinato di forze modellanti e flussi temporali, rappresentano l'antesignano di tanta sperimentazione condotta dagli architetti di seguito selezionati secondo cui "Gli spazi architettonici e urbani sono interrelati da forze e informazioni come il nostro ambiente è cambiato, deve così cambiare il nostro approccio al progetto, non più lineare ma basato su sistemi dinamici che rispondono alla complessità urbana" (A. Eouleini). L'ormai classica composizione del progetto a layer, evolve nella direzione di una procedura diagrammatica complessa: sovrapposizione stratigrafica e connessioni trasversali non risultano immediatamente rintracciabili, piuttosto producono "viste complesse su molti livelli in modo accelerato e compresso": la geometria del progetto "inclusivo" in van Berkel è una "generazione topografica; può assumere qualsiasi forma, qualsiasi stile, qualsiasi aspetto". Coniugare lo strumento digitale con la complessità dei programmi contemporanei significa, dunque, sperimentare modelli geometrici complessi in una profonda modificazione della struttura architettonica: spazio e informazione, materia e corpo, tecnologia e ambiente si fondono in un circuito continuo registrato sulla superficie. Le architetture dei Nox sperimentano una "visione topologica del corpo, connessa ad una visione topologica del programma, e ad un topologia dell'architettura e persino della struttura", fissando in tal modo, nella modellazione della superficie le infinite forme del "movimento in architettura". Materia attiva e plasmabile, spessore in cui è possibile sanare spazi di ambiguità: la "riformulazione del suolo" operata da FOA "proietta il terreno oltre il suo piatto codice e lo trasforma in un elemento attivo e mutevole" (A. Zaera Polo). L'osmosi continua tra superficie e involucro, tra figura architettonica e suolo produce topologie attive, terreni superficiali in cui è possibile rintracciare una fluttuante continuità tra superficie ed edificio. I risultati formali a cui questa ricerca approda, rintracciabili anche nelle esperienze urbane di Bosch Haslett, trovano nelle teorie di Kengo Kuma, un gradiente in più nell'elencazione dei dati di partenza. Nel suo orizzonte negativo di "erasing architecture" giunge alla postulazione di una progettazione che procede per affioramenti o implosioni. La rilettura complessa del territorio, l'uso del data base di fattori ambientali per incrociare a livelli compositi i dati propri degli eventi naturali conduce ad una trasposizione delle modalità di modificazione topologica in deformazioni complesse della superficie. La trasformazione del processo di progetto cristallizzata in una delle possibili configurazioni, lega la ricerca di Eloueini a quella dei paesaggisti francesi Roche DSV, Sie. Attraverso strategie di ibridazione e mimesi operano una distorsione della natura resa possibile dal morphing: "(il progetto) non è più una questione di contrasto con il proprio contesto, ma di un collegamento tra essi attraverso i processi di trasformazione in atto". Si tratta di una vera e propria manipolazione genetica in cui "il contesto non è più idealizzato, concettualizzato e storicizzato". (F. Roche). L'evoluzione dinamica insita nei processi naturali diviene regola privilegiata per costruire instabilità in grado di sfocare la distinzione tra vita organica e inorganica (R+U). Le opzioni qui bloccate sono lasciate aperte nella costruzione di un Attractor game (Oosterhuis A.), software capace di gestire il territorio in un coinvolgimento degli abitanti che tenga conto della capacità del territorio stesso di assorbire flussi attraverso forze di attrazione e repulsione. La rilettura della natura per strati evolutivi (Geuze, Desvigne & Dalnoky) finora riprodotta, viene "estrusa" per proporre uno spessore continuamente mutevole: la progettazione in divenire che delega alle superfici complesse il compito di gestire la molteplicità dei dati e delle forze in gioco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LIGHT ARCHITECTURE

 Gianni Ranaulo                                                                                                        ^

 

 

Il libro Gianni Ranaulo trasporta il lettore in un mondo dove una nuova architettura avvolge e reinterpreta l’architettura tradizionale. Sganciandosi dai canoni che hanno sempre condizionato la nostra realtà si riesce a raggiungere una dimensione tra reale e virtuale : la STEREOREALTA’. Nasce una nuova idea di architettura dove il cittadino non è più elemento passivo ma partecipa e interagisce al contesto urbano, diventa un INTERATTORE, cioè parte importante di questo nuovo sistema dove realtà e virtualità si fondono. Attraverso un breve racconto delle tendenze architettoniche a partire dagli anni ’80, Ranaulo ci aiuta a capire come LA TRASPARENZA diventa l’unico modo di rispondere alla crisi di idee di quegli anni, e come i cambiamenti della sociètà debbano essere riflessi nelle architetture e utilizzati a proprio vantaggio. Ma perché l’architettura tradizionale a acquisito l’idea di una nuova forma? Tre sono gli elementi che hanno portato a questa trasformazione: l’automobile, l’elettricità e la pubblicità; con essi l’architettura è diventata in movimento, luminosa, e cosa più affascinante capace di trasmettere immagini e informazioni: è un’ architettura che respira, che pulsa, cha attraverso la sua pelle ci trasmette emozioni. E’ questo il fulcro della LIGHT ARCHITECTURE: l’utilizzo di nuove tecnologie e di nuovi materiali crea spazi interattivi, che comunicano e che trasmettono immagini. Ci stiamo immergendo in una nuova realtà. Si interviene in un modo diverso; non più sul piano del costruito, ma sembra come se le immagini diventino materiali costruttivi: il MEDIA BUILDING è esempio lampante di come l’architettura diventa comunicazione; attraverso le sue facciate c’è uno scambio incredibile di informazioni e questo facilita la sua costruzione in quanto la pubblicità è una forma di autofinanziamento. L’autore ci apre gli occhi alla possibilità di nuovi progetti: chi mai avrebbe pensato di poter utilizzare magici anelli virtuali di nebbia artificiale, ottenuta con un processo di nebulizzazione dell’acqua, per dare una nuova immagine alla TOUR MONTPARNASSE? Chi si sarebbe aspettato che un elemento simbolico degli anni ’70 sarebbe diventato oggetto di proiezione di immagini multimediali?

 Anche questo è il bello della LIGHT ARCHITECTURE: la riqualificazione di elementi del passato con idee del tutto futuristiche; senza neanche appoggiarmi a un grattacielo lo riesco a trasformare, a dargli un nuovo volto. Il libro riporta esempi che caratterizzano la light architecture suddivisi in tre categorie: leggerezza, movimento e informazione. Toyo Ito, Jean Nouvel, Ranaulo creano architetture leggere, trasparenti evanescenti che richiamano l’aria, l’acqua e la luce; Foster, Rogers, Kersalè, utilizzano la luce con risultati straordinari. Si incomincia a pensare a un’architettura fatta di spazi dinamici, risultato di una società in movimento, frenetica e dinamica, una società che vive anche di notte, che ha bisogno di nuovi spazi. L’architettura deve assecondare e riflettere gli spostamenti nello spazio dell’uomo. Grazie al computer il pensiero diventa materiale, possiamo sperimentare e realizzare nuove forme, possiamo costruire architetture intelligenti. Con la LIGHT ARCHITECTURE nasce un nuovo strumento di comunicazione e informazione: il Media Building. L’architettura diventa informazione grazie alla retroproiezione di immagini su supporti trasparenti; il vetro rappresenta il confine tra mondo reale e virtuale, l’immagine reale dietro il vetro si fonde con quella delle proiezioni in primo piano. Questa tecnologia applicata a aree che “disturbano” la nostra città potrebbe diventare un ottimo e importante elemento di riqualificazione dell’arredo urbano.