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E' uscito
Giancarlo De Carlo Lo spazio, realtà del vivere insieme
di Antonella Romano ne "Gli Architetti" Universale di Architettura, Testo&Immagine


 

Proponiamo il dialogo posto all'inizio del volume
 

Un dialogo come introduzione
di Giancarlo De Carlo e Antonino Saggio
 

Una pagina della nostra letteratura apre una finestra per osservare il lavoro di Giancarlo De Carlo
 

Alle ville ed ai castelli si aggiungono le ville più piccole, le villette, le case, i casolari, i paesi e le borgate che la varietà del suolo lascia apparire in un complesso che rende insaziabile l'occhio dell'osservatore per il numero inesauribile delle scoperte, portandolo naturalmente alla conclusione che il secondo artefice, per avere tanto amato e compreso il Primo, si sia impossessato del suo segreto al punto che ora tutto sembra fatto da lui: dall'uomo, sì, che sempre e in ogni cosa ci appare volgendo intorno lo sguardo, l'uomo nella sua espressione più alta e degna( dalle Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi)


Giancarlo De Carlo è uno dei grandi intellettuali italiani di questo dopoguerra perché tiene insieme il lavoro specifico dell'architetto con una precisa visione del mondo. Il centro propulsivo del suo pensiero consiste nel cercare nell'individuo la ragione e il fine di qualunque organizzazione sociale o spaziale. Architettonicamente questo atteggiamento si esplica nel concepire un complesso di abitazioni (per esempio a Terni) come un sistema di variazioni tridimensionali e planimetriche, nel pensare a un luogo storico (a Mazzorbo, ma anche a Catania) come combinazione di una serie di morfemi elementari dotati di riconoscibilità, nel disegnare la cellula di un complesso per forza di cose ripetitivo (per esempio nei Dormitori di Urbino) attraverso una disposizione a ventaglio che rende ciascuna camera diversa. Quando l'orizzonte è un territorio (come per quello di Urbino) lo sguardo è il medesimo di Palazzeschi e le domande che guidano la progettazione di De Carlo riflettono sul come creare un paesaggio integrato, articolato, composto di cose diverse ma governato, sempre, dall'uomo.

Una tensione progettuale che parte dall'individuo per arrivare a strutture complesse in cui significato dell'individualità è valorizzato non riguarda solo l'architettura ma anche il modo di De Carlo di partecipare alla storia italiana a partire dagli anni cruciali della guerra: come non pensare al giovanissimo capo partigiano milanese che scambiava le missive con Giuseppe Pagano chiuso a San Vittore, o all'impegno urbanistico e politico sulle battaglie del Piano di Milano negli anni Sessanta, o alla fiera rivendicazione delle proprie posizioni nella famosa Triennale "mai aperta" dopo il ‘68, insomma al significato dell'impegno individuale come atto, se serve, anche "estremo"?.

De Carlo parte dai problemi. Partire dai problemi è il senso della proposta/protesta del Team X contro le soluzioni dogma degli anziani maestri dei Ciam. Partire dai problemi e non da una presupposizione di forma, di stile di linguaggio vuole dire partire dall'uomo concreto anzi dall'individuo e non dalla sua astrazione statistica burocratica, ideologica, ergonomica. Due conseguenze sono fondamentali: la prima è la centralità del contesto specifico, la seconda è una attenzione verso modalità esplicite di indagine e di sviluppo del progetto (si ricorderà la fase della progettazione partecipata o anche il Piano per il Centro di Urbino). Nel progettare quindi non si tratta più di prefigurare "modelli" da inserire nelle diverse situazioni (come i maestri a lungo hanno pensato e insegnato) ma di studiare "metodi", cioè armi di progetto che abbiano duttilità nell'adattarsi. Dal modello al metodo, vuole dire usare l'attitudine "oggettiva" del funzionalismo ad un livello più alto e complesso: per puntare alla diversificazione delle soluzioni e alla loro flessibilità, per lasciare libera l'architettura nelle composizioni planimetriche e volumetriche, per aderire ai programmi e all'interpretazione che ciascuno ha, del luogo.

Questa posizione verso un nuovo umanesimo emerge in uno scenario internazionale che da un canto la accoglie (Christopher Alexander, per esempio, che è tradotto in Italia proprio nella collana del Saggiatore di De Carlo, o John Habraken e il Sar olandese Ralph Erskine, Aldo Van Eyck) ma dall'altra la rifiuta. Gli anni Sessanta in cui il lavoro di De Carlo comincia ad assumere rilevanza internazionale sono anche quelli del big bang. Il mondo, in cui si fanno evidenti le ricadute della cultura di massa, non è più unitario, ma esplode in una miriade di stati, di opzioni diverse. La cultura architettonica, che con i padri del moderno si era concentrata nel tentativo di tenere insieme le componenti eterogenee dell'architettura ora perde la sua vocazione totalizzante e si occupa di una serie di frammenti: Eisenman e i NY Five, la sintassi, Venturi e Moore, il kitsch, gli Archigram e i Metabolisti, la costruzione dell'utopia, Aldo Rossi, la rappresentazione. De Carlo è, e sarà in tutto il suo percorso, l'opposto. A queste tendenze verso la parcellizzazione dell'architettura, per cui si "costruisce valore" estremizzando un solo punto di vista, sostituisce una visione unitaria che abbraccia insieme recupero e nuova architettura, costruzione e forma, funzione e contesto e, soprattutto, architettura e urbanistica. È potuto avvenire, come il libro di Antonella Romano puntualizza a più riprese, attraverso la concentrazione del suo lavoro per lunga fase in alcune aree geografiche circoscritte (Urbino, Siena Venezia), per l'incontro con grandi uomini di cultura da Carlo Bo a Elio Vittorini, per l'interesse di alcuni amministratori per la sua azione. Non ultimo certo per importanza il filosofo Massimo Cacciari che gli ha donato le chiavi di Venezia alla fine del 1999.

E allora? Da dove cominciamo un dialogo con De Carlo? Seguiamo un filo che, organizza in forma diversa quanto già apparso nel fascicolo n. 3 de "Il Progetto", rivista vicina e amica che ringraziamo per la concessione, un filo che parte dai rapporti architettura natura e prosegue con le recenti scoperte del suo lavoro.

 
AS. Da dove cominciamo? Cosa stai facendo adesso? Più volte abbiamo sottolineato l'importanza dell'informatica come "tecnica artificiale che rende l'architettura sempre più trasparente alla natura". Hai qualche lavoro in questo campo?
GDC. Sto facendo qualcosa del genere in Piemonte, in un paesino che è stato abbandonato 200 anni fa. Un piccolo imprenditore di Alessandria mi ha detto: "Ma perché non lo recuperiamo e lo facciamo diventare un Villaggio informatico?" Ma informatico che cosa vuol dire? Che c'è un'apparecchiatura di trasmissione, per cui la gente che sta qui può comunicare, certo la cosa è un poco per white eagles, ma mi ha molto intrigato.
E ora, vedi questo disegno di un crostaceo? La nostra educazione architettonica ci dice che è il vertebrato il passo in avanti, ma lavorando mi sono accorto che il crostaceo è infinitamente più libero del vertebrato, ha delle capacità di organizzazione interna, in verticale, in diagonale, perché si è adattato al suo ambiente come le case antiche di questo borgo abbandonato.
La mia ultima ricerca si ispira a questa dimensione del crostaceo come tensione verso uno spazio complesso, legato a geometrie complesse, interdipendenti le une dalle altre.
A San Marino per esempio ho fatto delle strutture sensibili, flessibili, a volte il tessuto sostituisce il reticolo e qui mi interessava avere queste asimmetrie: è un uccello con le ali.
AS. Forse nella ricerca contemporanea, si è superata la fase organica "quella che vede la natura come madre" per una tensione anche verso aspetti più problematici, più scomodi in qualche modo tumultuosi, cattivi, viscerali della natura. Come sente De Carlo questo aspetto?
GDC. Ma, sai, vi sono arrivato da architetto, scrivendo e progettando insieme. Io non riesco a separare le due cose. Del resto le cose che ho scritto sono molto legate alle cose che faccio.
Sul problema del paesaggio c'è da dire che non ho mai amato la morbidezza della corrente organica, questo glorificare la natura cha è la madre di ogni cosa. Io credo che il rapporto con la natura è un rapporto dialettico e anche di conflitto e anche di pace. É un rapporto che si ricrea continuamente, perciò io non amo parlare di paesaggio, io parlo di territorio.
L'ecologia secondo me è una disgrazia, non avrebbe mai dovuto succedere che si parlasse di ecologia, e ti dico questo anche se sono contento che ad un certo punto qualcuno ne abbia parlato, che abbia sollevato il problema.
Ma è la constatazione di una disgrazia perché, se fossimo stati sempre in, questo rapporto dialettico, anche in conflitto, in opposizione con la natura, non ci sarebbe mai stato bisogno di ecologia perché l'ecologia sarebbe stata inglobata nell'architettura. Che cos'è l'architettura se non è ecologica? Non mi riesce neanche di pensarla.
Quando creo lo spazio parto sempre da un processo intellettuale e lo confronto continuamente con le cose che mi stanno intorno e con le cose con le quali mi imbatto.
La mia ricerca geometrica, mi serve per dare un ordine complesso e contraddittorio alla costruzione dello spazio, al contrario di quanto facevano i neoclassici che invece cercavano di eliminare e semplificare la contraddizione usando la geometria, io la adopero esattamente al contrario e nello stesso tempo, mi permette di mettermi in rapporto pacifico con la natura, perché mi dà la chiave attraverso la quale riesco non soltanto a leggere la natura ma anche ad interpretarla e a ricondurla alla mia sensibilità.
Altrimenti, senza quest'uso della geometria, la mia sensibilità, rimarrebbe romantica sarebbe solo sentimentale.
A.S. - Qual è il progetto e il momento nel quale è nato qualcosa di nuovo nella ricerca degli ultimi anni?
G.DC. - Si, certo che c'è un momento, c'è sempre un momento, c'è un momento in cui ti rendi conto che stai imboccando una strada, questa strada è stata preparata però da qualcuno e su questo non c'è dubbio alcuno.
Non mi sembra di aver fatto un salto, io ho iniziato a cercare e a ragionare in una molteplicità di direzioni ma certo il momento che mi chiedi è stata la torre di Siena, che per me è nata come una grande liberazione, nel senso che mi sono liberato totalmente non tanto dell'architettura razionalista, perché sarebbe un fatto secondario, ma mi sono liberato di fatti molto più importanti. Come per esempio della statica, e dell'uso dello spazio ad essa conseguente. Questo mi ha dato un grande sollievo, cioè per la prima volta ho capito che non necessariamente i pesi vanno verticali verso il centro della terra, che io i pesi li posso anche muovere, e che comunque, nella mia espressione sarebbe troppo limitativo seguire pedantemente il fatto che i pesi vanno giù verticali. Questo mi dà molta più libertà: i pesi li posso far andare dove voglio. Penso che appesa al ramo di un albero c'è la mela. Cade verticalmente con la gravità, ma nell'albero c'è anche la linfa che va su, è un fatto vitale, che tiene su l'albero tant'è vero che appena la linfa cessa di scorrere l'albero cade.
 

Queste cose mi hanno incominciato a interessare moltissimo, ancora una volta il legame con la natura è mediato da un processo intellettuale. Ma questo non lo considero negativo, lo considero umano, fa parte dell'essere umani arrivare ad una comprensione delle cose per via intellettuale. Le porte di San Marino sono per me esemplari; io le ho fatte con le mani lavorando con i materiali su tanti modelli, però, avendole immaginate in questa nuova dimensione astratta, le ho poi verificate e controllate.

A.S. - Torniamo al tema della natura attraverso questo nuovo modo di operare. La particolarità sembra legata anche a una concezione di territorio, che deriva non solo dal lavoro alla grande scala ma da una consapevolezza basata sulla continuità. Il concetto di De Carlo di territorio in fondo sottolinea che si arriva alla natura attraverso dei parametri fortemente umani, fortemente antropizzati.
G.DC. - Credo che il territorio sia l'universo entro cui si muove ogni manifestazione spaziale e li c'è la matrice di ogni cosa; aspiro ad un modo di pensare in cui non si fraziona più: sono contro il sapere della specializzazione. A me piace pensare al territorio come generatore di ogni cosa, le città, la periferia, le costruzioni e in questo quadro devi includere immediatamente il problema della natura. Non ne puoi fare a meno, ma approdi subito ad una concezione globale, quasi cosmogonica della vita, che per me è molto importante. Il pavimento della cattedrale di Otranto, questo mosaico dove i demoni sono insieme agli angeli, i malfattori e gli animali insieme agli uomini, è una rappresentazione così allucinogena, per me, che quando l'ho vista mi ha rivelato una tale quantità dì idee e di fatti che non ero riuscito ancora a mettere insieme e da lì sono partite mote cose. Ti sembrerà strano ma il pavimento della cattedrale di Otranto con questa incredibile cosmogonia che c'è dentro è molto vicino al pensiero anarchico.
A.S. - Ho fatto un salto quando mi hai parlato dei mosaici di Otranto, perché sono appena andato a rivedere il Duomo di Milano. Un edificio che in una unità di spazio crea una serie di link, una serie di legami attraverso i quali è possibile percorrere una serie di storie differenti in cui c'è anche tutta la contraddittorietà del mondo. Ecco, pensavo, questo è l'Ipertesto dei bambini medievali. Allora tutte le immagini del mondo erano li, oggi hai un cd rom e Internet. Attraverso questa strada arriviamo all'informatica, che è un argomento su cui dobbiamo ancora parlare.
Siamo in un'epoca radicalmente diversa dal passato che presuppone la ricerca di spazialità diverse. Io credo fortemente a una finalità contenutistica dell'architettura: credo che l'architettura debba dare forma a contenuti. D'altronde non riesco a capire Gropius se non capisco la sua tensione a dare risposta estetica (ma anche costruttiva e etica) alla civiltà industriale. Io credo che, sia pure in maniera nebulosa, stiamo cercando di dare forma alle modifiche totali di questo nostro mondo. Cioè alla maniera differente di organizzare le informazioni di oggi che è appunto questa ragnatela continuamente mutabile e estremamente dinamica che ci avvolge. E certo una delle metafore più importanti per muoversi in questo mondo informatico è quella che si chiama ipertestualità e cioè il fatto che le informazioni non hanno più rapporti di causa effetto ma hanno relazioni libere che si muovono spessissimo in via metaforica.
Questo fenomeno investe tutto il mondo contemporaneo dalla pubblicità, alla stessa architettura. Non sappiamo esattamente come, ma è chiaro che questi due mondi (informatica e natura) si devono integrare o comunque dobbiamo lavorare in questa direzione.
G.DC. - Si, si è chiarissimo. Io vedo un importante ruolo dell'architettura, se l'architettura riesce a generare questo nuovo spazio sul quale queste cose possono accadere in modo creativo invece che in modo analogico, ripetitivo, forse si riesce a liberare il mondo dalla cretineria, perché il grande pericolo di questo immenso cambiamento è la cretineria. Cioè noi ci troviamo di fronte alla possibilità di arrivare a situazioni di estrema intelligenza mai raggiunte nella storia dell'umanità ma siamo anche nella cretineria più totale. Perché non si sono ancora elaborate coscienze: e gli architetti sono molto in ritardo e anche gli artisti, per non parlare dei tecnici che invece sono giullari di questo nuovo sistema.
Di natura sono molto ottimista. Difatti lavoro, ho voglia di lavorare, sono d'altra parte pessimista perché mi sembra che il mondo stia andando un po' dall'atra parte e quando parlo di questa cretineria io ne parlo seriamente. Io vedo una grande funzione dell'architettura, cerco sempre che l'architettura abbia un ruolo, attribuisco all'architettura il dovere di avere un ruolo in questo momento più che mai. Per questo sono così allarmato e spesso cattivo con tutti gli architetti che falliscono continuamente queste opportunità oppure si abbandonano alle vie facili.
Oggi l'impegno è altro rispetto a quello della civiltà industriale, è un impegno molto più importante perché la situazione è moto più complessa e soprattutto la via della cretineria è molto più facile oggi. All'epoca di Gropius, o dei suoi predecessori, che erano ancora più forti, c'era ancora una struttura che teneva le cose, l'abisso della cretineria, era in qualche modo arginato. C'erano dei quadri competenti. Invece oggi non esiste più questa competenza e quindi la cretineria dilaga. E allora è qui che vedo il ruolo delle persone che hanno la mente aperta, che creano.
saggio@uniroma1.it

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